carciofiIl carciofo è una pianta erbacea, derivante dal cardo selvatico, chiamato cardus in latino e cugùntzula in sardo. L’ortaggio, dal particolare cuore tenero, lo si ritiene originario dell’Etiopia. Largo uso alimentare ne hanno fatto gli antichi Egizi. I Greci lo chiamavano kinara e i Romani cynara. Nel mondo antico i carciofi erano solo delle inflorescenze del cardo selvatico. I Romani conobbero quelle piante e  le apprezzarono anche in cucina, ma limitarono  il loro entusiasmo culinario solo agli steli, depurati dalle foglie dure, molto simili ai nostri attuali cardi. Plinio il Vecchio ha lasciato scritto che al mercato era possibile trovare in vendita, ma separatamente, sia le piccole inflorescenze dei cardi, sia gli steli ben ripuliti.

 

I Romani hanno sempre cercato, con opportuni incroci, di migliorarne la produzione dei cardi e dei suoi cuori,  rendendoli più carnosi. I carciofi latini provenivano principalmente  dalla Sicilia, ma anche da Cartagine e Cordova, in Iberia. Il prodotto costava caro e non poteva perciò far parte dell’alimentazione della plebe. Apicio, cuoco della Roma imperiale del primo secolo dopo Cristo cucinava i cardi con garum, olio, uova sode a pezzi, oppure con un pesto di  ruta, menta, coriandolo, finocchio, pepe, ligustico, miele o condiva i cardi lessati con pepe, cumino, garum e olio.

 

In epoca successiva,  le quotazioni del prezzo del carciofo aumentarono notevolmente tanto da indurre l’Imperatore Diocleziano a stabilire un prezzo calmierato. Non si sa bene cosa sia stato a far sì che un piccolo cuore come quello del cardo si trasformi in un tenero e sodo carciofo. Probabilmente l’opera dell’uomo era stimolata dal fatto che il carciofo fosse consacrato a Venere.  Pare che il cardo con i carciofolini più grossi si sia sviluppato grazie all’intervento dei maestri giardinieri andalusi, giunti  in Sicilia con gli arabo-iberici nel XIV secolo. Il carciofo arriva quindi in Europa  e viene chiamato in arabo  kharshaf , da cui si origina lo spagnolo alcachofa e il sardo iscaltzofa.  

 

Nel XV secolo Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421-1481) nel suo prezioso testo   De honesta voluptate et valetudine parla molto di cardi coltivati, soprattutto a Cartagena e a Cordova, e di quelli, selvatici, diffusi anche in Italia. Li cita, li loda e  afferma che per godere di  buona salute si dovrebbe mangiare cardi ogni giorno, specie le donne incinte, ma non usa mai una parola che identifichi i carciofi. Nei  testi di storia della gastronomia si è soliti citare gli apporti che la  cucina rinascimentale italiana ha introdotto nella cucina delle corti di Francia a seguito del matrimonio di  Caterina de’ Medici col futuro re di Francia Enrico II. Pochi e scarsi gli elementi che  documentano l’uso e lo scambio dei carciofi ma si sa che la futura regina ne era ghiotta.

 

Un cronista dell’epoca, Pierre de d’Estoile, dice che al matrimonio di Mademoiselle de Martigues, Caterina de’ Medici, ormai regina madre, fece una tale scorpacciata di fondi di carciofo che si temette di vederla morire d’indigestione. Secondo la stessa cronaca i fondi di carciofo, leggermente scavati, erano ripieni di rigaglie di pollo, con prevalenza di creste di gallo, il tutto legato con una salsa bruna.   Si sa anche  che tale Filippo Strozzi nel 1466 portò a Firenze, dal Napoletano alcune piantine di carciofo. Ermolao Barbaro, patriarca di Venezia, all’incirca nello stesso periodo raccontò a sua volta di averne visto uno, coltivato come esotica rarità, in un giardino di Venezia. Un secolo più tardi il botanico Mattioli riferisce che il carciofo è abbondantemente coltivato in Toscana. 

 

Cristoforo Messisbugo, che presta la sua opera di scalco presso la corte degli Estensi a Ferrara, nel 1548 preparò un pranzo durante la visita di Carlo I d’Asburgo, imperatore della Spagna, con il nome di Carlo V, meritandosi i suoi  elogi. Nel suo importante libro riferisce come cucinare i carciofi: “Prima farai la cassa del pastello, della medesima sorte di cui s’è detto per fare i grostoli da magro. Poi gli porrai buon olio e qualche pezzolo di meggia affumicata allessa e un poco di pevere dentro. Poi gli porrai sopra i carciofoli giungendoli sopra un poco d’olio e pevere, e qualche  pezzolo della meggia sopradetta ovvero bottarga tagliata minuta. Poi averai un poco d’uova di luzzo o di tenca con once 2 di zuccaio e succo di nananci ovvero agresto; e le pesterai bene e le mescolerai bene insieme, passandole per la stamigna con poco sale, tanto che sia un poco più di mezzo bicchiero di composizione. E la ponerai nel detto pastello, ponendogli poi il suo coperto sopra; e lo porrai a cuocere”.

 

Il marchese Vincenzo Tanara, nato a Bologna nei primi anni del Seicento e morto nel 1667, riconosciuto umanista,  scrive il trattato Economia del cittadino in villa di sette libri. Relativamente al carciofo scrive:”…da trent’anni in qua, si è cominciato a mangiare il carciofo nella sua vera e tenera perfezione, condito in diversi modi, poiché prima si costumava mangiarlo grossissimo e barbuto, sol cotto lesso, in insalata come sopra; se ne fa ottima minestra o solo o accompagnato e tanto con grasso quanto con olio; tagliato in quattro o in sei parti per il lungo, fritto in padella serve per antipasto o per intramezzare o arricchire gli antipasti; dà grato gusto ad ogni stufato; sta bene nei pasticci; copre ogni lesso, sia grasso accompagnato da carne salata, che magro accompagnato da tarantello; avvolto nell’omento a guisa di fegatelli si pone allo spiedo; tagliato in bettoline se ne fa crostata; poi, ancora, si riempiono, levatone il pelo e qualche foglia di dentro, con piccatiglio di carne di vitello o di cappone o di piccione o fegatelli o granelli di pollo o animelle di vitello o prosciutto o mortadella piccata; nei giorni di magro si possono riempire con polpe di pesce, code di gamberi, tarantello, ostriche, tartufi, prugnoli; ben cotto, lesso, pestato e passato fa salsa……più grandetto, cotto sulla gratella viene di un saporito gusto; se, tutto intero, si pone a cuocere con dentro olio e burro e sale, e si cuoce a fuoco lento, si fa venire tenero. I gambi di carciofo infine, si trifolano, si fan crostate; si conservano per molto tempo in olio e sale; alla fine del pasto si mangia crudo o cotto,  servito con sale e pepe”

 

Alexandre Dumas padre, autore de I Tre Moschettieri, nel suo monumentale testo di gastronomia, pubblicato postumo nel 1869 (Grand dictionnaire de cuisine), scrive: “…Un tempo questa pianta  cresceva solo in Italia. Oggi i nostri giardinieri l’hanno fatta acclimatare e anche in Francia  si producono carciofi…”.

 

La pianta selvatica è stata domata e nascono così le molte e diverse varietà di carciofo: dai giganteschi esemplari del Nord Africa a quelli minuscoli dell’estuario di Venezia.

 

La cucina sarda usa il carciofo, sia coltivato che selvatico, quale ingrediente indispensabile per ogni ricetta. La coltivazione del carciofo si è radicata su tutto il territorio isolano dove si sviluppa un  microclima adatto a far crescere e sviluppare la pianta. La coltivazione del carciofo è diffusa dalle pianure di Oristano a quelle del Campidano, da Valledoria alle valli del  Coghinas, da Alghero a  Ittiri, da  Uri a Usini. L’infiorescenza si raccoglie all’alba  quando la sua struttura è tenera e la consistenza croccante. Si gusta crudo, condito con olio extravergine, limone, sale e pepe e nient’altro in quanto non sopporta né pane né vino. Ottimo appena scottato in acqua bollente salata e servito con un filo d’olio extravergine o in pastella, oppure come ingrediente nelle casciolas di verdure, di carne o di pesce.

 

 

RICETTA

 

Iscaltzofa cun pedrusìmula e menta per 4 persone.

 

Ingredienti:  8 carciofi, un mazzetto di prezzemolo, un mazzetto di mentuccia fresca, aglio, olio extravergine di oliva sale e pepe.

 

Mondate i carciofi eliminando le foglie esterne dure e l’eventuale fieno, senza romperli. Tritate il prezzemolo con alcune foglie di mentuccia,  uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Inserite questo trito all’interno dei carciofi. Disponeteli quindi dentro una padella che li contenga bene, con il gambo verso l’alto. Bagnateli con due terzi di olio e uno di acqua ricoprendoli a metà. Sigillate la padella con il coperchio e ponetelo sul fornello a cuocere per circa 40 minuti o finché l’acqua non si consumerà. Infine scoperchiate, fate asciugare  il sughetto e servite.