Tre millenni fa e oltre, la Sardegna era costellata da imponenti torri di pietra: architetture uniche in tutto il Mediterraneo capaci di resistere al tempo e alla storia.

Oggi ne contiamo settemila ma erano certamente di più: le vediamo in tutta l’Isola nelle forme più semplici o in quelle più complesse protette da alti bastioni e cortine e circondate da grandi villaggi. Il nuraghe è il simbolo più potente e conosciuto dell’età nuragica, periodo che gli studiosi collocano tra il XVIII e il III secolo avanti Cristo. Un simbolo che è al tempo stesso segno di potere, esempio di maestria costruttiva, centro di controllo e di aggregazione delle comunità. Ma soprattutto è l’emblema di una civiltà che si è distinta in tutto il Mediterraneo per l’architettura, l’artigianato, la produzione artistica e creativa, l’organizzazione economica e sociale, e che pur conservando tratti unici ha avuto continui contatti con popoli lontani, dalla Spagna all’Oriente.

A partire dalla struttura del nuraghe possiamo immaginare una società con una solida organizzazione sociale e nozioni di geometria, fisica e statica: le torri, costruite con anelli concentrici di grosse pietre, erano chiuse da una copertura a tholos o falsa cupola; all’interno delle torri c’erano più piani sovrapposti, collegati da scale e corridoi ricavati dentro le mura. Sulla sommità c’erano terrazze e ballatoi in legno; in alcuni casi, come il Santu Antine di Torralba, si raggiungevano anche venti metri di altezza.

Negli ultimi decenni, grazie a studi e indagini archeologiche sempre più evolute, conosciamo tanto della civiltà nuragica: sappiamo come vivevano, come costruivano le loro abitazioni, quali strumenti usavano nel quotidiano; sappiamo che coltivavano i campi e allevavano gli animali, che c’erano artigiani specializzati nella fusione dei metalli, nella produzione della ceramica, nella tessitura, che praticavano rituali votivi e cerimonie funebri. Abbiamo queste informazioni anche grazie al continuo confronto tra l’archeologia e altre discipline come l’antropologia, la paleobotanica, la geologia, la chimica.

Rimangono però anche tantissimi dubbi: se riuscivano a costruire strutture così complesse perché non abbiamo trovato tracce di calcoli e segni di scrittura? Come immaginavano la vita nell’aldilà? Quali divinità veneravano, come vivevano la spiritualità? Perché alcuni siti sono stati abbandonati improvvisamente? E com’era organizzato il potere, c’erano organi centrali oppure ogni territorio si gestiva per sé?

Un punto particolarmente interessante, tra i tanti argomenti ancora da conoscere, è quello della continuità di uso: ci sono luoghi in cui le pietre hanno resistito per millenni a vento, acqua e fuoco, che hanno visto succedersi intere generazioni di uomini e donne; luoghi che hanno ospitato lavoro, vita quotidiana e familiare, riti sacri e riti funebri, culture e lingue diverse e hanno fatto da testimoni a scambi commerciali e tecnologici e accordi politici nei secoli.

Gli scavi archeologici ci raccontano attraverso materiali e stratigrafie i diversi momenti di vita di questi luoghi, scelti per posizione o perché erano in grado di garantire una vita di qualità, non solo materiale ma anche spirituale.

La zona centro-meridionale della Sardegna custodisce tre preziosi esempi di queste lunghe e intense continuità di uso: Cuccurada a Mogoro, Santa Vittoria a Serri e su Mulinu di Villanovafranca.

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Nuraghe Cuccurada, Mogoro (OR)

Quasi due millenni hanno segnato la vita del complesso di Cuccurada, all’ingresso di Mogoro, arroccato sulla punta meridionale del tavolato basaltico di sa Struvina e costituito da una muraglia megalitica, una struttura ellittica e un nuraghe complesso. Il nuraghe, del tutto insolito, fu frequentato intensamente tra il Bronzo medio e recente (1600 – 1150 avanti Cristo), più sporadicamente fino all’età del Ferro (900 – 730 a.C) prima di essere abbandonato e parzialmente distrutto. I gesti dell’età nuragica vennero soppiantati dai rituali romani: gli archeologi hanno scoperto un deposito con spilloni in osso, tantissimi crani, resti di sacrifici animali, monete, lucerne con simboli cristiani ed ebraici, frammenti di vetro e una stipe votiva. Uno spazio sacro, destinato a culti pagani, cristiani e giudaici.

A Serri esiste uno dei santuari più grandi e meglio conosciuti dell’età nuragica. Anche questo, come Cuccurada di Mogoro, ha avuto una vita intensa soprattutto tra il Bronzo finale e l’Età del Ferro. Probabilmente venne distrutto in epoca romana da un incendio, come si immagina dalle tracce di cenere trovate dagli archeologi. Per conoscere gli aspetti religiosi e spirituali della civiltà nuragica è qui che dobbiamo guardare: ci sono templi, una grande capanna delle assemblee, un recinto che ricorda le cumbessias. Ma il monumento più importante di Santa Vittoria è il tempio a pozzo, datato al IX secolo avanti Cristo e costruito in basalto e calcare con un effetto bicolore. Da un vestibolo con una scala di 13 gradini si arriva fino al pozzo circolare, mirabile esempio di ingegneria idraulica: qui, con un sistema di fori sui muri, si raccoglieva e si raccoglie ancora oggi l’acqua piovana.

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Pozzo sacro Santa Vittoria, Serri (SU)

Non sappiamo se l’acqua fosse un mezzo per la celebrazione dei riti, o se fosse piuttosto essa stessa oggetto di culto: da sempre in Sardegna, come ci ricordano preghiere e leggende, l’acqua, i pozzi e le fonti conservano un alone magico e sacrale.

La copertura non si è conservata, ma altri pozzi nuragici quasi integri come quello di Su Tempiesu di Orune fanno pensare che avesse una volta a tholos come quella delle torri. In tutto il santuario sono stati ritrovati tantissimi oggetti come modellini di nuraghe e altari in pietra, lucerne in bronzo a forma di navicella, armi votive e soprattutto tantissimi bronzetti che raffigurano sacerdoti e sacerdotesse, offerenti, figure interpretate come capi tribù, animali e oggetti vari, che fanno immaginare celebrazioni sacre collettive.

Il santuario ha conservato la sua funzione religiosa anche nelle epoche successive, e in età bizantina vi fu costruita in stile romanico la chiesetta di Santa Vittoria.

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Nuraghe Su Mulinu, Villanovafranca (SU)

A Villanovafranca c’è un altro prezioso esempio di continuità di uso: il grande complesso di Su Mulinu, che sorge su un piccolo rilievo sulla valle del rio Mannu, a meno di un chilometro dal paese, fu frequentato dal Bronzo Medio per circa un millennio. L’eccezionalità di questo sito sta nel fatto che durante l’età del Ferro in un vano dentro il bastione fu realizzato in arenaria uno straordinario altare votivo a forma di nuraghe. Era decorato da quattro else di spade scolpite che sostenevano lame in bronzo, e da altri oggetti in metallo. Sotto la sommità, gli scalpellini avevano ricavato un crescente lunare. L’altare fu usato in età nuragica e dopo un momento di abbandono fu riutilizzato in età romana, tra il 50 a.C. a 150 d.C. circa.

A quali divinità erano destinati questi rituali? Quali cambiamenti hanno attraversato nei millenni? E perché certi luoghi, nell’età nuragica e nei millenni a venire, sono stati scelti rispetto ad altri per costruire, lavorare, venerare le divinità, per vivere? Mogoro, Serri e Villanovafranca sono ancora oggi i maestosi custodi di questi segreti.

Francesca Mulas

 

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