Balzata ad un’improvvisa celebrità, la figura dell’acabadora rappresenta uno degli aspetti più oscuri e dello sterminato patrimonio di tradizioni popolari della Sardegna. Con tale termine, derivato con ogni probabilità dallo spagnolo acabar (finire), si designa una donna perlopiù anziana. A lei era riservato il compito di intervenire sui moribondi senza speranza, per porre fine alle loro agonie. Una vera e propria eutanasia: rispondeva alla compassione per le sofferenze patite dai moribondi e a ragioni pratiche. Nell’economia di sussistenza delle comunità rurali, le cure ad ammalati senza possibilità di guarigione sottraevano risorse ad altre questioni vitali, mettendo a repentaglio il fragile equilibrio delle famiglie dei malati. A lungo si è discusso sulla effettiva esistenza di queste figure, ma la straordinaria quantità di testimonianze illustri, di memorie popolari, lascia pochi dubbi sulla veridicità storica dell’acabadora, anche se risulta quanto mai arduo ricostruirne un profilo esaustivo, data la segretezza dell’ufficio, a causa dell’ostilità delle istituzioni civili e religiose.

 

La prima testimonianza sull’acabadora è di Alberto La Marmora che, nella prima edizione del suo Voyage en Sardaigne (1826), riferiva di questa pratica diffusa nelle zone più conservatrici dell’isola fino alla prima metà del XVIII secolo. A corroborare le sue parole, lo scrittore e viaggiatore inglese William Henry Smyth affermò che l’abbandono della pratica era stata dovuta all’opera del gesuita Giovanni Battista Vassallo tra il 1725 e il 1775. Le testimonianze dei due scrittori diedero il là ad una polemica tra chi affermava la veridicità storica di tali pratiche e chi le considerava leggende, tanto che il La Marmora nella seconda edizione del Voyage (1839) si diceva incapace di decidere se prestar fede o meno alle testimonianze raccolte. Nel 1833 il termine acabadoras fu inserito nel dizionario di Goffredo Casalis. Il religioso e uomo di cultura Vittorio Angius, sostenitore della veridicità storica, mise la pratica dell’acabadura in relazione con il geronticidio rituale che lo storico Timeo di Tauromenio (IV-III sec. a.C.) asseriva praticato in Sardegna per mano dei figli, al compimento del settantesimo anno d’età dei genitori maschi. Il geronticidio, inserito in un rituale dedicato al Dio Kronos e praticato in uno stato di ebbrezza per affievolire la drammaticità del rituale, fu messo in relazione con il Riso Sardonico. Padre Bresciani, nel suo Dei costumi dell’isola di Sardegna (1850), riportò un episodio narratogli da una donna che in gioventù, colpita da grave malattia, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, alla vista dell’acabadora fu presa da un tale orrore che il trauma la portò a una repentina guarigione.

 

Nei decenni successivi della questione si occuparono studiosi e letterati sardi e forestieri. Nel 1906 un sacerdote fu testimone di un caso particolare: una vecchia si avvicinò alla madre di un bimbo moribondo offrendosi come acabadora, ma la madre rifiutò dicendosi desiderosa che il figlio si guadagnasse il paradiso con le sofferenze dell’agonia. Alcune fonti parlano di un caso di acabadura a Luras nel 1929 (l’accabadora era anche la levatrice del paese) e di un altro a Orgosolo nel 1952. Non si trattava solo di un compito tecnico, ma rientrava in un complesso rituale magico di cui l’acabadura era l’extrema ratio. Nella credenza popolare l’agonia travagliata era la punizione di peccati commessi dall’alto valore materiale e simbolico per la sussistenza della società agropastorale. Tra questi, l’aver imbrogliato sui confini dei campi per appropriarsi di terreni d’altri, o l’aver buttato o bruciato un giogo (juvale, juale) per i buoi, azione che non andava fatta neanche quando l’arnese era divenuto inservibile. Al moribondo veniva messo il giogo sotto la testa, nella convinzione che ciò ne affrettasse il decesso. La camera doveva essere spogliata di tutto ciò che aveva il compito di proteggere l’ammalato (amuleti, oggetti sacri) e di ciò che egli aveva di più caro (affetti familiari, oggetti di valore materiale e sentimentale), in modo che la magia del rito non venisse contrastata da ciò che poteva tenere il moribondo legato alla vita.

 

L’associazione del giogo con l’agonia è stata riscontrata anche in altre zone mediterranee (Abruzzo, Romagna, sud della Francia), probabile segno di una ritualità simile all’acabadura diffusa fuori Sardegna. In origine dovette essere usato un giogo da lavoro nei campi, sostituito da un tipo cerimoniale, fino alla miniaturizzazione simbolica ottenuta intagliando un rametto di ulivo o di olivastro nella messa della Domenica delle Palme. Secondo le testimonianze del La Marmora e le moderne ricerche etno-antropologiche, l’atto dell’acabadura era messo in opera con il soffocamento o più spesso colpendo in un punto specifico il capo del moribondo. A tale scopo, si usava il giogo o uno strumento appositamente costruito, Su Mazolu, un sorta di martello in legno di olivastro di cui è noto un unico esemplare, conservato nel Museo Etnografico di Luras. L’acabadora non riceveva compensi diretti: finito il suo compito, si defilava per evitare di incrociarsi con i familiari del defunto. Vista la delicatezza del suo ufficio, l’acabadora spesso veniva chiamata da un paese vicino, in modo da evitare i coinvolgimenti dell’appartenenza alla stessa comunità della famiglia del morto.

 

La sua figura evocava timore e mistero: naturale che, in tempi relativamente recenti, indebolitasi la sua autorevolezza all’interno della comunità, l’acabadora sia divenuta oggetto di superstizione, spesso allargata a tutta la sua famiglia. L’origine della sua funzione era con ogni probabilità sacerdotale: lo conferma il fatto che la comunità le riconosceva poteri pratici e trascendentali. Più complicato fare ipotesi sull’origine storica della figura dell’acabadora, anche se tutto fa pensare a una pratica arcaica che ha resistito alla cristianizzazione, almeno nelle zone interne e fino al Concilio di Trento. Abolita ufficialmente nel XVIII secolo, è continuata in modo clandestino fino al Novecento, combattuta dalla Chiesa e dallo Stato in maniera non molto convinta, preferendo tollerare i sempre più sporadici episodi come residui di barbarie piuttosto che come un pericoloso fenomeno sociale.