Fin dalla prima volta che venni in Sardegna, calpestare e guardare questa terra e ritrovarvi amici che amo, sempre mi produce un’emozione radicale, quella che associ a luoghi e persone divenute parte essenziale di te stesso. Col passare degli anni, e l’accumularsi di viaggi ed esperienze, la nostra anima compie la sua selezione fra luoghi e persone con cui è più autenticamente felice, quelle terre cordiali dove ci riconciliamo veramente con la vita, dove desideriamo sempre tornare. Così è per me la Sardegna.

 

D’altro lato, i vincoli che uniscono Sardegna e Catalogna sono antichi e vi si alternano luci e ombre. La Sardegna, nel Medio Evo, è stata disputata fra diversi regni, e i re d’Aragona ne furono signori, però la cattedrale di Cagliari accoglie la tomba di Martino il Giovane, la cui morte significó la fine della dinastia catalana.

 

Oltre la realtà linguistica che persiste a l’Alghero, l’opera realizzata già alla fine del XIX secolo da Eduard Toda, che fu console di Spagna a Cagliari, e più recentemente dai professori Jordi Carbonell o Joan Armangué, è servita a mantenere viva la coscienza d’una contradittoria storia condivisa e la volontà di rivendicare radici culturali e una forma d’incarnare la dimensione mediterranea nella quale ci sentiamo realmente prossimi.Oggi sardi e catalani lavoriamo per rafforzare e rilanciare la nostra personalità collettiva senza rinunciare a sentirci protagonisti della modernità. Siamo popoli fratelli.

 

Grazie all’impulso di traduttori come l’algherese Antoni Arca o di editori come Franziscu Cheratzu o Diego Corraine i ponti letterari fra Sardegna e Catalogna sono aperti, attivi, fecondi e in crescita. Per me è una gioia speciale presentare un volume pubblicato da Edes, che nel 1992 fece conoscere in Italia il mio libro La pell del somni, e perché vi ho iniziato a leggere autori sardi come Frantziscu Masala o Antonio Cossu, tradotti allora dal sardo in catalano da Antoni Arca. Da allora ho seguito con ammirazione ed interesse l’evoluzione della letteratura sarda, malgrado io sia un poeta e non un critico letterario o un professore. In questa occasione, dunque, parlo solo come scrittore e non come esperto.

 

Siamo davanti a un libro di una scrittrice consacrata che ha ottenuto due volte il Premio Ozieri, riconosciuto ed apprezzato internazionalmente. Anna Cristina Serra vanta una già estesa opera pubblicata -solida, meritevole e coerente- ed ha proiettato con notevoli frutti il suo lavoro letterario anche verso il mondo della musica o del teatro.

 

Non sono uno specialista in Anna Cristina Serra, ma un lettore entusiasta nella mia condizione d’autore catalano della stessa generazione, malgrado Anna Cristina sia più giovane di me. Credo nell’importanza della letteratura sarda e mi affascina la poesia di Anna Cristina: vi confluiscono, arricchendosi, lo sguardo tellurico, la tradizione latente e una donna inserita in maniera critica in questa stimolante contemporaneità dove i limiti si fondono e circolano senza barriere geografiche il conoscimento e l’arte.

 

Il biglietto da visita di un libro è il titolo, perché l’autore ne vuol fare un invito a leggerlo e ce ne offre un assaggio rappresentativo del messaggio che ci vuole trasmettere. L’autrice ha scelto Luna cantadora, designazione che appare, per esempio, nella bellissima poesia No est de prantu (Non è di pianto) quando Anna Cristina scrive “sa luna tunda e cantadora / xelendinci sa dì innantis de messai” (“la luna tonda e poeta / digradante alla vigilia delle messe”) –pp. 54-55-, una poesia che inizia e chiude in maniera formidabile, lapidaria: “Totu s’est impiticau” (“Tutto si riduce”) e “benei a su coru miu de cras” (“venite al cuore mio di domani”).

 

Nell’intervista che introduce Luna cantadora sono citati i versi eterni di Giacomo Leopardi: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?”. La Luna è un corpo celeste dove nulla sembra succedervi, a parte movimento, un astro silente e disabitato, ferito da crateri provocati dall’impatto di meteoriti, unito all’origine e al destino del nostro pianeta e delle nostre vite. Malgrado non emetta luce propria, ma rifletta quella del sole, il suo nome in sardo vuol dire “la luminosa”, la presenza che calma la solitudine dei nostri occhi davanti alla notte traversata dalla Via Lattea e ingombra di stelle.

 

La compagnia vicina della Luna, come quella di Giove, mitiga la vertigine delle distanze enormi che ci separano da altri oggetti celesti. L’universo costituisce un invito all’indispensabile umiltà davanti a un infinito dove alcuni, come Anna Cristina Serra, intuiscono un Dio che fa battere il cuore del mondo e conforma un’immensità che ha ben poco a vedere con ciò che gli uomini siamo capaci di creare.

 

La Luna è parte essenziale del paesaggio che influisce sui cicli della natura e assume funzione determinante per misurare il tempo e fissare il calendario. In Luna cantadora sono frequenti i riferimenti alle stagioni: “Depu andai, ma moris no agatu / aportus de is froris de s’ierru” (“Devo andare, ma non trovo sentieri / che mi porgano i fiori dell’inverno”) –pp. 56.57. Per Anna Cristina la Luna è anche uno specchio dove riflettere i pensieri che ci interpellano, i sentimenti che ci sostengono, le incertezze davanti alle fragilità che ci indeboliscono e mettono a prova la nostra serenità, il nostro precario equilibrio, il nostro corrispondere all’inesauribile corrente della vita.

 

L’opera è un canto commosso, un’esaltazione gioiosa, una lacrima addolorata che nasce dalla terra e respira e spiega quest’isola. La poetessa fa che anche il cielo senza fine e il viso argentato della Luna diventino eco della Sardegna. La poesia di Anna Cristina tratta del destino dell’uomo, del suo passare incerto per la vita travagliata, dell’armonia da cercare con la Terra e l’Universo. Anna Cristina Serra non ci parla dell’uomo di oggi, piuttosto di quello di sempre, d’una continuità storica, dei nostri antenati assenti e rimpianti che vivono in noi, nei nostri figli, nei nostri gesti, nei nostri occhi, nelle parole che dissero e rinascono nuovamente, risorgendo dal silenzio ogni volta che le pronunciamo. Non ci soprende, dunque, la sua rivendicazione delle cantadore, ninnadore, della poesia orale, perché rilegavano con i loro canti rituali emozioni personali con la corrente essenziale dei sentimenti universali: la tenerezza che ci suscita il bambino ingenuo che si sorprende davanti a un mondo fascinoso, dalle inesorabili unghiate dalle quali lo vorremmo proteggere, il pianto elegiaco davanti allo squarcio che ci provoca la morte di qualcuno che amiamo, un dolore dove risuona il tremito antichissimo che ferisce i nostri cuori, di quelli che adesso siamo qui in Sardegna e di quelli che vi hanno vissuto per secoli.

 

 Luna cantadora è un libro che ci offre versi e immagini magistrali, memorabili. Non mi stancherei di citarne. Alcuni esempi: “e tenit sabori di erriu / custa noti” (ha sapore di fiume questa notte) –pp. 16-17- e alcuni versi più avanti: “In ogus apretu ‘e mari” (Negli occhi necessità di mare), “de cussus ogus antigus de Terra” (di quegli occhi antichi di Terra) –38-39-, “Ma s’umbra manna est unu mari” (Ma l’ombra è grande come il mare) –40-41-, “No/ no isparessit su mari/ in sa noti citia” (“No,/ non sparisce il mare/ nella notte muta”) – 42-43-, “A tretus mi pariat/ obrescidroxu ‘e mariposa” (A volte mi sembrava/ un’alba di farfalla) –54-55-, “no m’apàxiant nimancu/ fueddus antigus de trigu” (non mi dànno pace neanche/ antiche parole di grano)  e “in is telloraxis de su celu” (nelle pietre d’aia del cielo) –78-79-, “in-d’unu arrastu ‘e dolori/ chi sinnat a fogu/ sa perda ‘e memória?” (in un’orma di dolore/ che marchia a fuoco / la pietra della memoria?) –84-85-, “in altaris de pani e de binu/ seu sànguni e carri/ ma no intzertu cali/ de is fueddus chi nas/ s’adobit a is mius.” (in altari di pane e vino/ sono sangue e carne / ma non indovino quale/ delle parole che dici/ s’incontri con le mie) –74-77-, “Ses arrosu in sa pastura” (Sei rugiada in erba fresca) –62-63-,…

 

Le citazioni evidenziano alcuni elementi centrali della poesia di Anna Cristina: il mare, la notte, le pietre, la natura onnipresente e la dimensione religiosa dell’uomo, il dialogo con Dio, con il mistero della creazione espresso in modo toccante: “no essi’ ierru in cust’ ‘omu prena/ de Tui in is oras mias/ chi ti circant impressias/ di èsseri in cus’àcua lena lena/ candu morit sa tristura” (non sia inverno in questa casa piena/ di Te nelle mie ore/ che ti cercano ansiose/ di essere in quell’acqua dolce dolce/ quando muore la tristezza”) –62-63-.

 

Al momento di fare una valutazione d’insieme di Luna cantadora, volume ben lavorato, di chiara coesione interna e di livello invidiabile, mi è indispensabile segnalare come uno dei momenti culminanti e più riusciti del libro Est ora de cantai, poesia bellissima e impressionante, d’un lirismo intenso e delicato, dove leggiamo con un’emozione che si fa nostra: “Fortzis custu tempus no est su tuu” (Forse questo tempo non ti appartiene) e “unu nìnnidu nou/ marigosu a-i custu celu de tui” (una nenia nuova/ amara a questo cielo fatto di te) –40-41-.

 

Vorrei infine prestare attenzione a un altro aspetto che considero rilevante di Luna cantadora. Nella poesia di Anna Cristina Serra è presente un minuzioso lavoro formale in alcuni casi plasmato nell’utilizzo della strofe saffica o della rima, e che si manifesta con uguale successo nel verso libero. Vi percepiamo nitidamente, come in una preziosa partitura, una melodia tessuta con pazienza che s’addice in modo pieno e totale al respiro d’ogni poema.

 

Questa è una delle sfide perenni della grande poesia, che si nutre d’idee brillanti, d’immagini poderose e d’una musica adeguata. Vi troviamo una chiara mostra del talento dell’autrice e del suo ammirevole dominio della scrittura poetica e della musicalità.

 

Le mie felicitazioni, dunque, ad Anna Cristina per Luna cantadora, un eccellente passo avanti nella sua opera e un momento importante nella poesia sarda e mediterranea d’oggi e di sempre.