Testo dell’intervento al Convegno di Cagliari del 1995, Facoltà di Lettere

 

Benvenuto Lobina, parlando di sé e del suo impegno letterario, nel colloquio con gli studenti dell’Università di Cagliari che seguivano il corso dedicato ai romanzieri sardi contemporanei da Giuseppe Marci nell’anno accademico 1990/1991 (Cuec, 1991) ebbe a dire il 17 dicembre 1990 : ”Il mio paese è Villanova Tulo, 1100 abitanti, allora come adesso. Non è cresciuto perché ci sono 500 emigrati”. Correva, come si dice, il 1914, vigilia del primo conflitto mondiale, iniziato nel luglio di quell’anno, in conseguenza dell’uccisione dell’arciduca Ferdinando, tra l’Austria e la Germania, da una parte, e la Serbia dall’altra e che coinvolgerà tutte le nazioni europee (Francia, Inghilterra, Russia) e poi gli Stati Uniti d’America e quindi, dal maggio 1915, anche l’Italia.

 

L’infanzia di Benvenuto Lobina, dunque, è segnata dalle paure e dalle sofferenze causate da quella guerra di cui egli, più tardi, comprenderà i sacrifici di vite umane e i danni imposti al popolo sardo in genere e a quello di Villanova Tulo in particolare. Quel dramma e il dopoguerra che ne seguì – del movimento combattentistico e del fascismo – sarà raccontato con i colori e i ritmi della rievocazione nel romanzo ”Po cantu Biddanoa”, che comparirà nel 1987.

 

Ma, tornando al colloquio di Benvenuto Lobina con gli studenti, ricordo che egli ebbe ad affermare che ”verso i quattordici anni scrivevo già poesie”. (1928) ”Ho vinto proprio il primo premio – aggiunse – in un concorso: l’ho vinto a 14 anni. Il premio era stato bandito da ”Il balilla”, il giornalino della gioventù fascista di allora. ”Poi ho continuato a scrivere qualche poesia in italiano. Pubblicavo in una rivista che si chiamava ”Quaderni di poesia” di un certo Mario Castaldi che forse non era nessuno nel panorama degli ultimi anni Venti, primi anni Trenta. Nel ’32 scrivevo sempre poesie, alcune le tenevo nel cassetto. In quell’anno sono venuto a Cagliari per lavorare alle Poste. Ho scoperto il futurismo e la rivista di Mino Somenzi, che aveva quel titolo in una delle ”bancarelle” che v’erano allora in Via Roma e in piazza Yenne. Il Futurismo in Sardegna è arrivato allora. Il nostro gruppo era costituito di pochi elementi: due o tre pittori cagliaritani, i fratelli Cocco, Goffredo Mameli, l’architetto Ettore Paccagnini. Io pubblicavo qualche poesia su ”Futurismo”. Di una soltanto ricordo il titolo: ”Dramma al tramonto”.

 

Era stata giudicata bellissima (G. Marci, op. cit. pag. 67). Non ne conservo copia perché alle mie cose non ho mai dato eccessiva importanza. Poi sono partito militare, chiuso il rapporto con la poesia, non ci ho pensato più… Dopo sette o otto anni mi è capitata in mano un’altra rivista ”S’Ischiglia” di Dettori: poesie in sardo”… ”ma non è che mi piacessero queste poesie in sardo, non mi piaceva la forma, non mi piacevano i contenuti. Poi mi è venuta la voglia di scrivere in sardo. In principio mi sono adeguato e ho fatto poesie con la rima. Poi ho detto: ma perché devo fare poesie con la rima se il sardo è abbastanza duttile da poter essere piegato alle esigenze della poesia moderna?… mandavo le mie poesie alla ”Nuova Sardegna”, parlo dei primi anni cinquanta.

 

Un’accoglienza bellissima!… Lì alla ”Nuova Sardegna” era redattore di terza pagina Angelino Giagu, l’attuale presidente (direttore, in verità. Note del redattore) del Banco di Sardegna. C’erano i giornalisti di Sassari Antonio Pinna e Salvatore Ruju che mi sgridava continuamente perché mandavo poche poesie. Ma io prendevo gusto al sardo, tanto che nel 1974 ne ho pubblicato, in campidanese, una ventina… L’iniziativa non è stata mia, è stata di Bustianu Dessanay, il socialista. Queste poesie, in numero di 19 furono raccolte in un volumetto intitolato ”Terra, disisperada terra” e pubblicato in una collana di ”Scritti sulla dipendenza” promossa dalla Jaca Book di Milano in collaborazione con le Edizioni nazionali sarde di Antonello Satta ed i ”Quaderni calabresi” ( vv. ”Benvenuto, i versi e le prese” di Salvatore Tola nel volume ”Is canzonis” di Lobina – Edizioni della Torre – Cagliari pp. 15-26).

 

Questa seconda fase di produzione poetica ebbe termine con un lungo periodo di crisi e di maturazione legato alla guerra: fante in Africa Orientale della divisione Sabaudia percorse in lunghe marce quegli immensi territori con scarsissimo orgoglio di conquistatore ed un crescente spirito di comprensione per quelle popolazioni sottomesse e martoriate. Smobilitato, tornò poi in Sardegna, a Cagliari, dove riprese il suo lavoro alle Poste. Riflettendo sulle proprie esperienze di guerriero il nostro Lobina, riferendosi a quanto scritto da lui stesso in ”Po cantu Biddanoa”, nel colloquio con gli universitari di Cagliari sopraccitato, egli ebbe a dire: ”Quando il romanzo arriva alla guerra d’Africa, anch’io mi faccio personaggio.

 

Sono stato soldato al Distretto militare di Cagliari, ho smosso mari e monti per andare volontario in Abissinia. Ci sono riuscito e mi hanno assegnato al 46° Fanteria. Trovo un amicone ch’era tenente dei mitraglieri: ”E tu – mi disse- cosa stai a fare in fanteria?.-.. Tu te ne vieni con me!”. ”E come faccio, se mi hanno mandato qui in fanteria? … ”Ti cambi le mostrine e vieni…”. ”Così ho fatto!” – aggiunge il nostro Benvenuto serio serio.

 

”Dopo, a guerra finita, mi hanno cercato per tutta l’Africa Orientale perché ero scomparso dal 46°: il soldato Lobina non risulta sbarcato a Massaua. Volatilizzato!… Mi hanno trovato, finalmente, al 530° Battaglione mitraglie (v. G. Marci, op. cit. p. 70). Tornando alla sua avventura guerresca il nostro così si esprime: ”Durante l’avanzata dell’Amba Alagi, passando con il mio Battaglione ai lati della strada ho notato che erano stati buttati gas, fatto che è stato sempre smentito, ma che è pura e semplice verità. L’Amba Alagi l’hanno presa (si noti che B. Lobina dice ”l’abbiamo presa”) con i gas perché quelli sarebbero stati in grado di difendersi rotolando massi dalle cime delle montagne e allora li hanno snidati con l’iprite… Ai lati della strada… vedere quei poveretti con le carni lacerate, senza cure, senza niente… Lì ho chiuso col fascismo. Io ho chiuso col fascismo, visto finalmente che cos’era finalmente ho aperto gli occhi”.

 

”Finita la guerra torno in paese. Tutti andavano a sa Prazzitta a raccontare le loro cose, c’erano prima i combattenti della guerra ’15-’18, poi sono arrivato io e ho dovuto raccontare. Una specie di esame: ”Tu che armi avevi?”, ”Ah, eri Battaglione mitraglieri, che mitraglia avevi?”, ”Fiat 14 con raffreddamento ad acqua, come avevate voi”. ”Che fucile?” … ”Il solito 91” … ”Poi ho detto dell’iprite. I combattenti della prima guerra mondiale avevano un terrore sacro perché alla fine del conflitto i tedeschi avevano buttato l’iprite. Con l’iprite ne erano crepati un sacco. Sono tornato a casa un po’ avvilito e mia madre antifascista per la pelle: ”T’ind’è passada sa gana?”. Anche questo episodio è passato nel romanzo”. (op. cit. p. 70). Le cose che vi sono raccontate sono fatti veri, storia vera.

 

La fantasia da sola non serve, bisogna che tu parta dalla realtà, non potete disgiungere l’elemento fantastico dall’elemento reale, anche perché l’elemento fantastico mica contraddice i fatti reali, semmai li gonfia un tantino… (Cioè) è un problema d’enfasi, direi… Il personaggio diventa più personaggio se gli si attribuiscono caratteristiche ulteriori rispetto a quelle che aveva nella vita reale. Può diventare personaggio soltanto se si avvicina al mito, come si è avvicinato Luisicu: in quel caso assume una certa consistenza da romanzo, non da essere umano qualunque” (op. cit. p. 70-71). Alla richiesta di precisare se vi fosse ”una differenza fra i contenuti che trattava in versi e quelli che affidava alla presa”, il nostro romanziere e poeta rispondeva: ”Direi di no. (E faceva un esempio): ”Delle mani di mio padre parlo in poesia e nel romanzo anche se non negli stessi termini formali” (op. cit. pag.72).

 

In effetti, il padre che – come sappiamo – faceva ”su buttigheri” sia nel romanzo sia nella realtà vera, viene ricordato in alcune poesie presenti nel volume ”Is canzonis” (Edizioni Della Torre 1992). Altrettanto dicasi delle sue mani alle quali si fa riferimento diretto e indiretto nei versi di ”Torra a ghettai” (v. ”Is canzonis”, pag. 45) come in quelli di ”Mamma, nottesta puru” (v. ”Is canzonis” p.37) e di ”No è su passu ’e babbu” (v. Is canzonis, p. 45). Nella prima poesia il padre del poeta solleva il bicchiere e festeggia il Natale in compagnia di Luisicu (sì, proprio quello di ”Po cantu Iddanoa!”) e mentre il padre narra storie del suo paese (”conta’ contu de ’idda sua”) Luisicu ”conta’ contu’ de trincera”. Nella seconda poesia ovvero in ”Mamma nottesta puru” (v. Is canzonis, p.37) sono evocati i due genitori che, soli a casa, attendono che tornino, per trascorrere con loro la notte di Natale, tutti quelli che venivano negli anni precedenti, compresi quelli emigrati in cerca di lavoro e quelli passati a miglior vita, i defunti.

 

Naturalmente nella immaginazione intenerita del poeta ritornano tutti sicché il padre invita la moglie a lasciare da parte il rosario e ad alzarsi per ricevere gli ospiti (”Oh pesadindi, mamma, pesadindi/ ponididdu in busciacca s’arrosariu”) e il padre a smettere di rimescolare la cenere del focolare. ”e tui, babbu, lassa ’e forrogai/ cun su ferrittu in mesu ’e su cinixu/i aberiddis s’enna”, e ancora, l’esortazione al vecchio genitore, giacché nessuno degli attesi è assente, ad alzarsi e a spillare la miglior botte di vino: ”Pesadindi, babbu, e cumenza sa mellus carràda” mentre la madre offre i dolci tradizionali: ”boga figu siccada e pabassinas/mamma, sartizza e nuxi”. Ma il padre – questa è la triste conclusione della poesia – poiché il figlio non è venuto per la notte di Natale, e lo ha aspettato invano, se ne resta seduto presso il focolare e ”tristu e annugiau/ … sighit su cinixu/ a forrogaiu, nendi a bellu: ”Manc’ocannu è benìu”.

 

Nella poesia ”No è su passu ’e babbu” (p.41), il genitore che è ormai defunto viene ricordato dalla moglie e dal figlio nell’atto di mostrare il mare di spighe che ondeggiano nel mese di ”lampadas” (giugno) nel campo de su Stuppara o i grappoli di uva nera: ”niedda che pixi” o del ”nuragus, castia, unu spantu e i custu girò: unu cadinu/ dònnia fundu”. (Is canzonis, p.43)

 

Ma la evocazione più bella e affascinante, più vibrante di lirica sublimazione è in una pagina di ”Po cantu iddanoa”, nella quale le mani del padre, de su buttigheri del paese, hanno capacità miracolose e misteriose, che diventano parole, fueddus, capaci di far crescere le piante nel modo giusto, e gli innesti di attecchire: in questo caso – dice il narratore poeta- ”is manus depianta fueddai ’e prus, depianta cumbinci… (E) is manus fueddanta, fueddanta e naranta a sa mamma ca s’ogu o su pizzu” inseriti nel ramo di un albero che non ”donava” sarebbero cresciute, si sarebbero fatti una nuova pianta, bella, piena di frutti e di nidi.

 

All’inizio della primavera, ”babbu torràt a passai accanta ’e sa mata pudada o inferta” e trovava che la pianta potata ”fut ponendusi su bestìu nou, is ogus, is gemmas, fuant unfraus, prenus: babbu ddi passàt a asuba, cun delicadesa, is manus suas mannas, e candu si furrìada is froris cumenzat a ispannai, poi beniant is fruttus, e fut totu unu miraculu…

 

Tenéi passenzia, fut babbu miu”… E solo suo padre, conclude lo scrittore, solo il tocco delle sue mani poteva dare nuova vita alla pianta, indurla a germogliare e a farsi feconda di fiori e frutti. E a popolarsi di nidi e di uccelli canterini. (v. ”Po cantu Biddanoa”, parte seconda pp.54/56 passim – 2D Editrice Mediterranea- 1987 Cagliari-Sassari)

 

A questo punto del mio discorso debbo riconoscere che mi sono trattenuto un po’ troppo a sottolineare quel vero e proprio inno che B. Lobina innalza alle mani del padre in ”Po cantu Biddanoa”: ho voluto mostrare un esempio della relazione, dell’intreccio e della connessione che sul piano della ispirazione, in una parola sul piano della poesia, esistono indissolubilmente tra la realtà del romanzo e la materia della poesia, tra ”Po cantu Biddanoa” e ”Is canzonis”: il loro universo di sentimenti e di fantasie, il loro terreno di sogni, è il medesimo e così sono medesime le radici di quella formazione umana, psicologica e morale, di cui s’è nutrito l’animo di Benvenuto autore come quelle del romanzo, dei personaggi e fatti della narrazione, che vediamo sempre richiamati nelle poesie, i vivi e i morti, i protagonisti e i deboli e gli umili abitanti di ”Bidanoa”, e che Benvenuto Lobina ritrae nel romanzo e nelle ”Is canzonis” in quotidiana lotta contro gli eventi, contro la natura, contro le loro insufficienze ed errori per la propria e per la sopravvivenza del paese. ”Biddanoa” ha come fondamento della sua vita sociale, vicende storiche e umane, quali vengono configurate nelle poesie e nel romanzo, il medesimo mondo di affetti, di esperienze e di sogni, di lutti e di dolori.

 

Una è la storia, individuale e collettiva, che si esprime in ”Po cantu Biddanoa” e in ”Is canzonis”, è la storia dei singoli e della collettività, di Benvenuto personaggio e di Benvenuto autore e poeta che nella sua prosa e nei suoi versi rievoca le vicende che, nel corso del tempo, nel bene e nel male, ma incancellabilmente, hanno contrassegnato la vita della comunità e quella di ciascuno dei suoi membri. Di qui, i caratteri specifici e distintivi della produzione letteraria del nostro Benvenuto che sanno di epica e di lirica, di narrazione storico-oggettiva e di autobiografia, di epica e di lirica, di rielaborazione fantastica e di fedeltà al vissuto, di rievocazione di vicende psicologiche e morali di cui si è nutrito, soffrendone e godendone un individuo, e di cui si è intrisa la storia di un intero paese che da essa ha tratto la propria inconfondibile fisionomia etnica e culturale, la propria identità.

 

Si leggano, a proposito delle origini di ”Biddanoa”, la splendida poesia ”E cun cantu cuaddus” e del romanzo le pagine dalle quali risulta che la fondazione del paese è legata alla decisione di una schiera di predoni che intendono assicurarsi per il futuro un rifugio permanente e imprendibile contro i loro nemici, un luogo ove garantirsi una sopravvivenza come individui e come gruppo, e dove farsi una famiglia con donne, figli e beni da cui trarre alimento per il futuro.

 

Quella decisione dei predoni e i saccheggi da cui essi hanno tratto i mezzi per fondare e costruire il paese, sono vicende e fatti che riguardano un antenato del nostro poeta, ma che questi condivide e giustifica, assumendosene le responsabilità morali. Scrive in quella poesia il nostro Benvenuto: ”E cun cantu cuaddus eus curtu, -o nonnu, deu e tui…- i a totu fua comente unu ’entu seus passaus, nonnu, tui e deu- in Campidanu, in s’Ollasta, -in Cabesusu e in terra di Abraxa –e fuau’ bandidus e furonis. –(Omini di onori –nara’ sa genti-, furonis chi torrobanta –sceti predis arriccus).

 

Dalle scorrerie, che ricordano le incursioni delle antiche genti sarde sui territori nemici, ma anche le bardane dei predoni che dalla montagna scendevano in armi a saccheggiare i villaggi delle pianure in tempi non troppo lontani, quei furonis traevano ricchezze, terreni e schiavi e donne che avrebbero costituito il fondamento materiale e umano della comunità, che essi intendevano creare tale che fosse rifugio e fortezza sicura contro i nemici. A tal fine era necessaria una stabile organizzazione sociale, fondata su famiglie regolari, su un’attività lavorativa che garantisse lo sviluppo e il progresso dell’intero paese.

 

Ma a ”Biddanoa” non v’erano donne ed era perciò necessario andare a prenderle laddove si trovavano, a valle, nei villaggi circostanti. Detto, fatto: in men che non si dica si organizza un novello ”ratto delle Sabine” mettendo a soqquadro con incursioni piratesche l’intera zona. E ”Cantu campidanesas titta’ mannas – a groppa de cuaddus curridoris, – nonnu, a sa moda antiga, eus furaus!- Iaus fattu in pizzu ’e unu monti, – cun aturu’ bandidus, una ’idda totu noa: mancanta sceti in feminas/ e i sa cresia… I a is feminas furadas ddis praxiada/ sa ’idda ’e perda bia: Biddanoa. / E po fai sa crésia unu predi- de s’Ollastas’ia ’donau/ tres crobi de marengus e iscudus/. De bonu coru, creei, / ananti ’e unu trebini avrigau”… (v. in ”Is canzonis” pp. 69-70).

 

Dopo la fondazione di Biddanoa e l’atto eroico del rapimento delle donne, quella banda di predoni si trasformerà in un popolo che si impegna per tutti i secoli futuri nell’opera ardua di assicurare la propria sopravvivenza combattendo contro la natura spesso avversa, resistendo ai poteri esterni sopraffattori, cercando di darsi regole e leggi contro la violenza che spesso si scatenava dall’intimo del loro stesso animo: e ciò nell’intento di farsi capace di vivere e di crescere in un ordinato sistema di relazioni sociali, di comportamenti morali e di tradizioni culturali entro cui doveva esprimersi e definirsi la propria identità e civiltà. E realizzarsi la rinascita della Sardegna che ancora appare assai lontana dalla vita quotidiana dell’Isola e della sua gente che ardentemente vi aspira e la reclama, ma con voce roca come scrive il nostro Benvenuto nei versi di ”Ohi, custa ’oxi” che qui riportano a conclusione di queste note:

 

 

Ohi, custa ’oxi chi di aillargu

i mi zèrria’ trista, a sa sighìa

…………………………

Mi zèrrias,

terra, cun i sa ’oxi serregada,

sa ’oxi ’e s’aradori verenau

chi ara’ cun dua’ bàccasa stasias

cungiadeddus perdosus;

sa ’oxi ’e de su pastori cun sa cara

segada ’e sa straccìa

in is pranus tuus fridus;

cun sa ’oxi mi zèrrias

de fiminas tribulliadas

totu sa vida ’estia’ de nieddu;

cun sa ’oxi ’e su trenu

chi è sighendi ancora a ndi pigai

sa mellu ‘ gioventudi.

E cun su prantu,

cun su prantu mi zerrias

de linnabrus arrutus

arrexìnis a solli, sconzallaus,

cun is follas ‘ biancas, frimas, fridas

che una cara ’e mortu.

(v. ”Is canzonis” pp. 57-58)

 

 

Ma non pare opportuno porre fine a queste considerazioni sulla poesia di Benvenuto Lobina con la visione desolata che delle condizioni della Sardegna viene tracciata nei versi succitati, anche perché il Nostro non era uomo che si arrendeva innanzi alle difficoltà e agli ostacoli che si frapponevano al cammino dei sardi sulla strada dello sviluppo. Dalla condivisione delle aspirazioni del popolo ad un avvenire di progresso è nata la poesia alla quale desidero riferirmi per ultimo. Si tratta di ”Canzoni naramì” a cui il poeta affida il compito di cantare per tutti i sardi poiché delle loro speranze e sofferenze essa vuole essere voce e testimonianza.

 

 

”E po chi no s’arrendi, canzonedda,

canta, e po chi s’arrendi canta ’e prusu;

canta a sa gioventudi, a nosu dusu,

a sa ’eccesa accanta ’e sa forredda.

Canta po chi ti scùrtada ’n galera,

canta po chi ti scùrtada ’n presoni,

canta po chini ’òllis ma, canzoni,

non cantisti cun boxi furistera”.

 

 

A rileggerla dopo tanti anni, questa poesia appare come un appello al popolo sardo a difendere e a conservare nella vita privata e in quella pubblica la nostra lingua come patrimonio culturale e straordinario e inalienabile nei confronti della globalizzazione che va sul piano internazionale compromettendo, e cancellando, le particolarità e diversità specifiche di non poche nazioni.