cristiano sabinoUna lunga chiacchierata con Cristiano Sabino sui temi attuali dell’indipendenza sarda. Il portavoce nazionale di A Manca Pro S’Indipendentzia ci espone la sua visione delle cose, per un indipendentismo moderno, un’economia basata sulle potenzialità della nostra isola, al di fuori di ogni colonialismo economico e culturale.

 

Cristiano è stato il primo a rispondere alla nostra chiamata. Làcanas infatti vuole accendere un dibattito, aperto al contributo di tutti, intorno alle tematiche dell’indipendentismo, che ormai non è più una “fissa” di pochi patrioti, ma un’ambizione condivisa da un numero sempre crescente di sardi.

 

Secondo un recente sondaggio il 40 % dei Sardi vuole l’indipendenza, il 10% di loro vuole uscire addirittura dall’Unione Europea. In ogni caso, la stragrande maggioranza dei Sardi si sente prima sardo che italiano. Cosa ne pensi?

 

Che è la scoperta dell’acqua calda. Nei momenti di crisi strutturale i Sardi, specialmente le compagini popolari, hanno sempre tirato fuori un forte sentimento di appartenenza nazionale. È successo a fine Settecento con la “sarda rivoluzione”, si è ripetuto spesso nel corso dell’’800 in reazione alle politiche dei Savoia che strangolavano l’export sardo e la vita delle campagne ed è emerso come imponente dato politico con l’affermarsi del movimento combattentistico poi confluito nel sardismo nel primo dopoguerra. L’italianità dei Sardi è una crosta molto sottile che spesso ha coinciso con la speranza in una integrazione e in una modernità che però si è rivelata sempre patrigna.

 

C’è anche da dire che lo Stato italiano è un neonato che non gode di buona salute. 150 anni fa un piccolo staterello ambizioso e bellicoso sfruttò una serie di condizioni internazionali favorevoli per inventarsi un risorgimento inesistente. Nacque l’Italia. Oggi questa imposizione fa acqua da tutte le parti, i tirolesi se ne vogliono andare, i popoli meridionali dimostrano insofferenza, la stessa classe politica uscita fuori dalla resistenza antifascista rimangia tutti i suoi ideali costituzionali e si rifugia sotto l’ombrello dell’Europa e dei suoi tecnici cedendo grosse quote di sovranità. A noi sembra normale che i Sardi riscoprano le loro radici e inizino a pensare che forse i tabù che ci hanno inculcato alle elementari raccontandoci di Muzio Scevola e Garibaldi sono da rimettere nel cassetto..

 

Via anche dall’Europa?

 

Assolutamente sì. L’abbiamo sempre detto e a ogni elezione europea noi abbiamo sempre fatto propaganda astensionista. L’Europa unita non esiste, è un sogno in cui hanno creduto Carlo Magno, Carlo V, Napoleone e Hitler e ora i banchieri della BCE. I popoli liberi se ne stanno rendendo conto e stanno prendendo le contromisure. Tempo fa  volevano anche scrivere una costituzione per verniciare di democraticità semplici operazioni della finanza internazionale e strategie di competizione imperialistica. Il nostro ambito di riferimento privilegiato è il Mediterraneo e invece grazie all’Italia dobbiamo rimanere legati al palo di Roma e Bruxelles. Prima sembravamo mosche bianche, ma ora sempre più sardi la pensano così.

 

Ma allora perché l’indipendentismo non riesce a trasformare questi dati in consenso elettorale?

 

Una cosa è la diffusione delle idee e della sensibilità identitaria, altra cosa è l’emergere di progetti politici che riescano a rappresentarli. A volte passano anni. L’illuminismo francese ebbe il suo splendore nei primi decenni del ’700, ma soltanto alla fine del secolo le idee illuministe vennero applicate durante la rivoluzione e soltanto nell’800 si affermarono come movimenti politici di massa organizzati e pienamente consapevoli. Oggi molti sardi, anche indipendentisti, sono alla ricerca di qualche dèspota illuminato che possa regalarci sovranità fiscale e politica e alimentare dall’alto, senza strappi, sconvolgimenti e rotture. In maniera graduale insomma. Tutti vogliono un fisco adeguato alle nostre esigenze produttive, un ridimensionamento dell’occupazione militare, tutti vogliono dare spazio alla lingua sarda, tutti desiderano combattere lo spopolamento e pensare un nuovo modello di sviluppo per l’isola e via dicendo. Almeno a parole, con mille “se” e “ma”. Ma se tutti guardano verso la conquista di “spazi di sovranità esempre più estesi”, perché siamo imprigionati nelle sabbie mobili dell’impotenza nazionale?

 

Evidentemente quello che stiamo vivendo è un interregno, in cui si nutre ancora l’illusione che le idee indipendentiste e/o di sovranità possano essere applicate da chiunque, anzi meglio se dai partiti di potere, perché sono già dentro il palazzo e conoscono e maneggiano bene le stanze dei bottoni. Molti purtroppo nutrono ancora una fiducia nei confronti di una specie di dispotismo illuminato in versione aggiornata. Per vincere anzichè vivacchiare e accontentarsi del ruolo dei profeti disarmati, gli indipendentisti dovranno prendere il coraggio a due mani, convergere su una serie di punti strategici e attaccare senza pietà il sistema dei partiti italiani oramai a corto di idee e incapaci di guardare altrove rispetto l’Italia, i suoi ministeri e i suoi simboli sempre più insipidi. Ormai non abbiamo più scuse: o tiriamo fuori i denti o il popolo sardo farà bene a fare di noi la damnatio memoriae.

 

Ma la convergenza indipendentista è fallita?

 

Fallito è solo ciò per cui nessuno combatte più. Non mi sembra questo il caso. Intanto per la prima volta nella storia dell’indipendentismo recente quattro organizzazioni indipendentiste molto diverse fra loro si sono sedute attorno a un tavolo (non apparecchiato in fretta e furia per le elezioni), e hanno parlato di idee e progetti in maniera libera e profiqua.

 

Cosa ne è venuto fuori?

 

Tanto di positivo. Per esempio ci siamo accorti che le principali divisioni che avevano caratterizzato la rinascita del dibattito indipendentista all’inizio, dieci anni fa, erano di carattere ideologico. È bastato sedersi e discutere a lungo per capire che non solo condividevamo importanti punti dell’agenda politica pratica, ma anche e soprattutto valori e punti teorici come nazione, sovranità, indipendenza, indipendentismo. Non è poco aver codificato e definito con chiarezza un piano condiviso di idee e valori su cui progettare prassi politica comune.

 

È vero, in questo momento, il processo di convergenza indipendentista ha subito un arresto abbastanza brutale. Ma chi ha mai detto che sarebbe stato semplice? Come sinistra indipendentista abbiamo sempre pensato che si trattasse di processi contraddittori, da verificare con l’esperienza e ci aspettavamo anche frenate brusche come è accaduto lo scorso 24 marzo in occasione della presentazione della Carta, disertata dagli altri movimenti. Sono scelte legittime, evidentemente dettate da altre priorità, ma questo non inficia minimamente il fatto che il processo è ormai innescato e che il dibattito sulla convergenza indipendentista segnerà l’agenda politica sarda nei prossimi anni riservandoci anche molte sorprese.

 

Dopo l’approvazione nel 2001 in Consiglio Regionale della proposta di legge per una Assemblea Regionale Costituente che riformi lo Statuto si sono moltiplicate le iniziative in questo senso e in manira trasversale. Come la vedete voi?

 

Una assemblea di un popolo è costituente quando si riconosce come sovrana e libera da ogni condizionamento esterno. Se le parola, la logica e la storia hanno un senso, parlare di “assemblea costituente regionale” è solo bassa demagogia oltre a essere completamente insensato. Quando la Corte Costituzionale dichiarò nulla la legge numero 7 del 2006 del governatore Renato Soru sulla “Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo” spiegò a chiare lettere che parlare di autonomia e di sovranità in una medesima espressione legislativa è un “ossimoro”. Il ministro agli Affari regionali aveva cinicamente aggiunto che “un popolo sardo sovrano non esiste”. Più chiaro di così!

 

È ovvio che la classe politica unionista è al corrente della tendenza dei sardi a spingere verso la sovranità e l’autodeterminazione e allo stesso tempo teme che possano rafforzarsi movimenti indipendentisti che puntano al governo diretto dell’Isola. Allora sindacati, partiti e intellettuali cercano di nascondere la miseria dei fatti con la retorica delle parole inventando cose strane come gli “Stati Generali del Popolo Sardo”, manco fossimo nella Francia di Luigi XVI. Come ho già detto a mio parere viviamo in una sorta di interregno drammatico e frustrante, il vecchio sta morendo e il nuovo non può sorgere, per citare un sardo famoso… Allora ci si inventa soluzioni tampone che preservino vecchi poteri e potentati e creino l’illusione di un nuovo sistema che però è basato più sulle parole che sui fatti concreti. È come se una squadra di calcio cambiasse improvvisamente maglietta mantenendo gli stessi giocatori, stesso presidente e stessa politica di calcio mercato. Sono giochi di prestigio che non possono funzionare per sempre.

 

Dopo la vittoria nel referendum sul nucleare vi siete concentrati nella battaglia sugli usi civici e contro la grande distribuzione…

 

Sì, due esempi che dimostrano come i partiti italiani non abbiano nessuna voglia di capovolgere le condizioni delle nostre comunità. A Nuoro, per esempio, A Manca sta raccogliendo firme per supportare il progetto di costruzione di un polo della sovranità agroalimentare in alternativa al progetto di costruzione di una caserma della Brigata Sassari. In una città che sta morendo soffocata dalla mancanza di progetti, dal blocco dell’edilizia, dalla crisi dell’agropastorale e dal mancato decollo dell’università, il sindaco Bianchi pensa bene di concedere i terreni a uso civico per costruire una bella caserma, che sarà edificata con i fondi destinati all’edilizia scolastica. Un grande statista insomma! A Manca ha capeggiato la mobilitazione contro la caserma facendo notare ai cittadini nuoresi che dietro queste scelte c’è solo servilismo  e cortezza di vedute e che basta un po’  di creatività per utilizzare le risorse locali per uscire dalla crisi.

 

Soltanto ponendo come centrali settori come l’agroalimentare, la pastorizia, l’artigianato e il turismo, sarà possibile uscire fuori dallo stato vegetativo nel quale sono stati tenuti i sardi in tutti questi anni e ricreare nuovi percorsi di lavoro e di scambio finalmente adeguati alle nostre radici, alle nostre risorse e alle nostre capacità. In questa prospettiva abbiamo iniziato in totale solitudine la battaglia contro la caserma a Nuoro e non si tratta di una questione legata a quel territorio, perché il lavoro dei compagni sta ottenendo dei risultati che meritano di essere esportati. In tutta la nazione abbiamo infatti urgente necessità di stabilizzare il nostro mercato, i nostri prodotti e il nostro ruolo nella società, perché solo con le nostre forze e le nostre gambe potremo uscire dalla crisi generata dalla dipendenza e dal tracollo del sistema economico impostoci negli ultimi cinquant’anni.

 

E la grande distribuzione?

 

Per quanto riguarda la grande distribuzione abbiamo attaccato a viso aperto il saccheggio da parte dei centri commerciali che in pochi anni hanno dissestato la nostra economia, trasformato i produttori in venditori a ribasso dei loro beni e soprattutto trasformato radicalmente – e forse in maniera irreversibile – le nostre città e i nostri paesi anche sotto il profilo dei rapporti sociali e culturali. Ti faccio l’esempio di Sassari, la città dove vivo e lavoro e dove questa nostra campagna di lotta è partita con successo. Fino a pochi anni fa il Mercato civico era il centro della vita cittadina, era un luogo di confronto e cultura pieno di sapori e saperi, di odori e colori dove comprare, ascoltare, imparare, confrontarsi e vivere la propria identità. Nel frattempo sono state date tante autorizzazioni per mega mercati dentro e fuori la città. Addirittura adesso La Piazzetta (uno dei centri commerciali più grossi) fa pubblicità in sardo per attirarsi le simpatie. Ma la realtà è ben diversa, Sassari è la città con il più alto numero di centri commerciali per abitante, il commercio locale è esangue e il sindaco di centro sinistra pensa di risolvere la cosa rifacendo qualche marciapiede, organizzando concertini jazz e chiudendo il centro al traffico.

 

Tutte cose belle se fossero accompagnate da un piano di sviluppo economico legato al territorio. Per esempio c’è la Nurra, che è una regione fertilissima ma assolutamente sacrificata rispetto alle sue reali potenzialità, si è persino cercato di orientarla – peraltro in maniera sostanzialmente fallimentare – verso una monocultura del turismo da parte di una politica culturalmente colonizzata e incompetente. Allo stesso tempo è stata ostacolata nella sua reale vocazione di poter diventare un territorio volano dell’economia agroalimentare di qualità per vaste aree del nord Sardigna. Perché al mercato dei prodotti agroalimentari, secondo i progetti italiani, dovrebbe sopperire non la produttività della Nurra ma la grande distribuzione straniera! La nostra intenzione è quella di mettere in rete operatori del mercato civico, pastori, agricoltori e piccoli commercianti per elaborare proposte condivise che ostacolino il proliferare dei centri commerciali e la riconquista di un’economia di soddisfazione e non di induzione dei bisogni.

 

Cinque punti che ritenete prioritari

 

Sposiamo l’idea di una agenzia delle entrate sarda, solo così potremo stabilire aliquote più giuste e non deprimere lavoratori dipendenti e piccole attività artigiane minacciate dagli studi di settore stabiliti a Milano. Una riforma fiscale forte è indispensabile, perché non possono obbligarci a pagare le tasse per comprare cacciabombardieri da mandare in Libia o per riempire i buchi fatti dalle banche e dagli speculatori. Nutriamo sfiducia verso la gestione italiana della riscossione, visti i colossali furti ai danni di noi Sardi di cui si è già vergognosamente macchiata l’Italia: i soldi nostri li vogliamo gestire noi, stabilendo parametri di giustizia sociale e di redistribuzione egualitaria del reddito.

 

E questa è una battaglia comune a tutti gli indipendentisti. Poi?

 

Il secondo punto è la cultura. Dobbiamo sardizzare la scuola e l’università che fino a oggi si sono comportate come marziani piovuti dal cielo. La lingua sarda in Sardigna ha meno dignità di quanta ne goda il catalano ad Alghero. È lo specchio di un profondo malessere del sistema culturale isolano che subisce il complesso di Zelig, importando modelli e riferimenti culturali anche fondamentali, ma estranei alla nostra cultura. Inoltre la Sardigna rappresenta uno dei territori con il più vasto patrimonio archeologico al mondo.

 

L’Isola dei nuraghi, delle domus de janas, dei dolmens, dei menhirs, delle tombe di giganti… Non sono solo monumenti che ci ricordano la grande civiltà dalla quale discendiamo, ma anche risorse di straordinario valore che dovrebbero poter dare lavoro a migliaia di giovani archeologi, a centinaia e centinaia di cooperative giovanili che impegnerebbero i giovani dei nostri paesi nella tutela e nella fruizione di questi beni inestimabili. Ovviamente ci dovrebbe essere un piano serio di reperimento fondi, pianificazione degli scavi e tutela dei beni. Invece ora tutto rimane a disposizione dei tombaroli (sardi e stranieri) mentre i giovani emigrano in tutta Europa e quando sono all’estero possono andare nei musei o nelle ville dei miliardari e trovarci dentro i bronzetti sardi, emblema della loro civiltà depredata per due spiccioli! Un piano nazionale per la ricerca, la cooperazione e la formazione deve impegnare i nostri migliori cervelli del settore almeno per i prossimi 5 anni, e questo solo per cominciare.

 

 

Fisco e cultura dunque. Cosa segue?
Il terzo punto è l’industria leggera e l’artigianato medio-grande. Questi due settori devono essere il polmone di un nuovo processo di industrializzazione della Sardegna. Un nuovo modello di industria controllato dalle cooperative di lavoratori qualificati e da personale tecnico fornito dalle università. Dobbiamo imparare che la gestione capitalistica del profitto è fallimentare e dobbiamo sperimentare nuove forme di imprenditoria collettiva basate su due concetti chiave: cooperazione e filiera corta della produzione e della distribuzione. L’industria per funzionare non potrà essere un progetto di stampo coloniale come lo è stata la petrolchimica basata sulla trasformazione, ma dovrà aspirare a mantenere in loco la parte maggiore di estrazione e trasformazione, ben sapendo che il nostro territorio possiede un’infinità di materie prime e spesso anche di qualità eccellente a livello mondiale, come è ad esempio il caso del granito, del sughero, perfino della lana di pecora che risulta essere pregiatissima come isolante.

 

Anche i bambini oramai sanno che la ricchezza viene data dalla lavorazione industriale, per questo i Paesi fornitori di materie prime o di semilavorati sono sempre sul lastrico e invece quelli industrializzati che lavorano materie che non possiedono – ma importano – sono i Paesi ricchi. Se avessimo una classe dirigente di spessore e soprattutto autonoma nelle scelte potremmo stilare un piano di industrializzazione finalmente slegato dalle logiche da rapina per puntare alle vere risorse dell’Isola. Le sabbie silicee sono un esempio. In Sardigna ci sono sabbie silicee di ottima qualità, perché non pensare a una loro trasformazione in loco, invece di estrarle e spedirle in Italia per fare arricchire le aziende italiane con la produzione di piastrelle, terrecotte, vasi di qualità ecc.? Fu Mauro Pili a firmare concessioni su concessioni alle ditte italiane per l’estrazione delle sabbie silicee della Sardigna: gli interessi di chi stava facendo? Andate a chiedere a lui, visto che oggi vorrebbe passare per uno che difende gli interessi dei sardi! Stesso discorso per l’artigianato sardo, chè è un artigianato di alta qualità e assolutamente unico nel suo genere, che è sempre stato uno dei pilastri del nostro sistema economico e che oggi collassa sotto il peso di un sistema di concentrazione della ricchezza favorita dall’oppressione fiscale che favorisce i pesci grossi e annienta la diversificazione produttiva.

 

 

Quindi non siete contro l’industria in generale, ma solo contro un certo tipo di industria…

 

Certo, siamo una forza di lavoratori e crediamo che una società senza industria non possa essere ricca socialmente. Ma l’industria senza il settore primario, in special modo in Sardigna, è impensabile.

 

E siamo arrivati al quarto punto. Il nocciolo…

 

Sì,  l’agricoltura e la pastorizia. Le due punte di eccellenza della rinascita della Sardigna. Ma per un rilancio reale è necessario imporre agli industriali caseari alcune condizioni, a partire dal prezzo del latte adeguato alla realtà economica odierna, non a quella degli anni ’80. Quello del latte sardo è l’unico mercato all’interno del capitalismo internazionale dove l’acquirente – anziché il produttore – fa il prezzo e ciò è assurdo! È ora di finirla, è ora di liberare i pastori sardi dalla schiavitù, è ora di entrare nel mondo come protagonisti e non come servi. Se gli industriali lattiero caseari non sono d’accordo possono sempre andarsene, nessuno sentirà la loro mancanza.

 

Dobbiamo puntare sulla qualità della produzione e della lavorazione perché rispetto alla quantità sono troppo pochi i settori con cui possiamo competere con altri mercati. Anche qui dobbiamo rilanciare in maniera non fittizia le cooperative e la filiera corta favorendo il boicottaggio attivo di megamercati e promuovendo campagne di acquisto consapevole dei prodotti genuini della nostra terra. A patto naturalmente che si inizi a cambiare anche il modo di intendere la politica già dagli enti più vicini al cittadino e ad eleggere amministratori che difendano la patria sarda. La gente ha sempre pensato che gli indipendentisti fossero dei matti e che invece i politici legati ai partiti italiani – quelli che oggi chiamano “casta” – fossero amministratori responsabili. Oggi sappiamo che questi amministratori “responsabili” sono i veri “responsabili” dell’invasione delle Città mercato e dei Centri Commerciali che hanno azzerato il commercio, l’artigianato, l’agricoltura, l’allevamento, tutto! Per esempio noi ci chiediamo se i signori amministratori abbiano concesso queste licenze gratuitamente.

 

E per finire?

 

Il quinto punto riassume in parte anche i precedenti, ed è quello dell’incentivo alla rinascita dei nostri territori. Bisogna coinvolgere i comuni, dando agevolazioni a chi vuole andare a vivere nei paesi in via di spopolamento per occuparsi di agricoltura, pastorizia e artigianato. I soldi per queste agevolazioni? Basta smettere di farceli rubare da Roma e dai politici sardi agli ordini dell’Italia! Con i dieci miliardi della vertenza entrate che l’Italia ci ha rubato faremmo rinascere tutti i paesi della Sardigna. Fatevi due conti, dieci miliardi di euro da dividere per 377 comuni, quanto fa? Una media di 27 milioni di euro a comune. Per cominciare. Come usare quei soldi? Ci sono tanti terreni abbandonati, tanti terreni civici inutilizzati e tante case vuote nei comuni della Sardigna.

 

Noi crediamo che i paesi della Sardigna abbiano bisogno di case piene di lavoratori sardi, con le loro famiglie, che tengono vive scuole, campi, uffici, negozi, botteghe, cantieri, stalle, ovili per tutto l’anno e per sempre, non di alieni che sbarcano su paesi di moribondi la settimana di ferragosto in casa di proprietà senza nemmeno pagare affitto! Potremmo favorire una massiccia riconversione dell’emigrazione interna dalle coste all’interno, dalle città ai paesi. Sono solo esempi, ma è chiaro che questi cinque punti devono essere messi in connessione da un disegno intelligente che oggi manca completamente: un piano nazionale sardo per il lavoro, la formazione e il territorio. Soltanto così potremo salvare la nostra terra dall’avanzata del deserto economico e civile che noi, senza paura, chiamiamo colonizzazione.