gerzehNel profondo Sulcis, provincia sarda di recente (?) istituzione, un sito archeologico molto interessante è rappresentato dalla necropoli preistorica di Montessu, in Comune di Villaperuccio, composta da 35 tombe (domus de janas), che costituisce un unicum nel suo genere perlomeno in quest’area del continente sardo.

 

Il complesso archeologico risulta all’interno di un vasto e fertile territorio che ha una delle più alte concentrazioni di costruzioni megalitiche della Sardegna. Questo triangolo nuragico è costituito dai paesi di Villaperuccio, Tratalias e Santadi.

 

Erano gli anni ’70 del secolo scorso quando proprio a Santadi fu scoperta la grotta del tesoro di Su Benatzu, un santuario nuragico non distante dalla grotta-tempio di Monte Meana. Nella prima furono recuperate alcune migliaia di reperti tra cui un piccolo tripode bronzeo, bruciaprofumi, ritenuto di fattura cipriota, mentre la seconda restituì delle bellissime statuine in osso raffiguranti la dea madre. I reperti sono esposti al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

 

Le domus de janas di Montessu, a pochi chilometri di distanza da entrambe le grotte, appartengono ad una cultura arcaica, neolitica, del IV millennio a.C. (facies San Michele) e risultano arroccate sul fianco alto di una collina, dalla sommità piana, che guarda al golfo di Palmas, sicuro e riparato approdo dell’antichità.

 

Oggi come allora, le navi che solcano il Mediterraneo trovano rifugio, dal mare in tempesta e dai forti venti, all’interno del golfo che si estende dal ponente teuladino sino all’antica Solki, l’attuale Sant’Antioco, isola un tempo terra di Shardana, Fenici e Cartaginesi.

 

I Solkitani erano popoli, forse di marinai esperti, che incisero profondamente nella cultura dell’intera area che da essi prese il nome.

Il complesso tombale di Montessu, scavato nella roccia, risulta essere un luogo di culto nel quale venivano praticati riti ancestrali: tuttora, comitive organizzate provenienti da tutto il mondo vi esercitano la meditazione.

 

La tomba-santuario denominata sa gruta de is procus, ha una particolarità. Al suo interno, nella stanza che un tempo conteneva i defunti, è scolpita la chiglia di una barca in dimensioni reali: mt. 4,20 di lunghezza per metri 2,30 di larghezza e cm. 50 di profondità.

 

Un’altra tomba, vicina alla precedente, presenta ugualmente un natante, più che una piscina, scolpito nel pavimento. Di forma semicircolare, ha un diametro di circa 4,50 metri per circa 50 centimetri di profondità; inoltre, gli scalini per accedere alla stanza che alloggia il manufatto sono stati pensati e scolpiti per simulare l’acqua che scorre o il moto ondoso.

 

Altri ipogei contengono, nelle pareti e sul soffitto, delle incisioni concentriche simili a quelle de Sa perda pintà , il famoso menhir di Mamoiada. Il professor Giovanni Lilliu propone che tali incisioni vogliano rappresentare il movimento dell’acqua conseguente al getto di un sasso nello stagno. Inoltre, a parere dello stesso, nelle  incisioni concentriche che al centro hanno un elemento filiforme piegato ad uncino all’estremità, quest’ultimo può fare ipotizzare uno sprizzo di liquido che perde forza dopo l’uscita dalla sorgente.

 

In un’altra tomba a pozzo, cosiddetta del Toro, abbastanza ben conservata ed i cui scalini di accesso sono sorretti da una testa bovina scolpita nella roccia, troviamo alcune particolari incisioni tra cui un motivo a navicella, ritenuto ufficialmente una protome taurina, che ipotizzo possa invece rappresentare due chiglie sovrapposte di nave che per la particolare conformazione ricordano le imbarcazioni mesopotamiche, dalle grandi prue e alte poppe, del IV e III millennio a.C.

 

Ma le incisioni di Montessu fanno anche venire in mente il Disco di Nebra, un enigmatico reperto rinvenuto nel 1999 da due tombaroli, grazie ad un metal detector, nell’omonima cittadina di tremila anime ubicata nella regione di Goseck nelle montagne di Harz, Sassonia-Anhalt (ex Germania Orientale). Il reperto è un disco bronzeo classificato come appartenente al neolitico, che ha un diametro di trentadue centimetri, spessore di mm. 1,5 ai bordi e mm. 4,5 al centro, e pesa circa due chilogrammi. Un sestante arcaico?

 

I bordi del disco presentano dei fori, equidistanti tra loro: probabilmente essi contenevano dei piccoli assi di legno che proiettavano l’ombra astrale sulla superficie del disco medesimo e sulle inclusioni in esso contenute; un sistema analogo viene tuttora utilizzato in Polinesia.

L’acqua appare quindi un elemento dominante del sito archeologico di Montessu, esposto a sud-est, e risulta essere la testimonianza del fatto che le ataviche civiltà sulcitane avevano un rapporto privilegiato con essa e quindi con il mare che, sino a poco tempo fa, veniva ancora considerato una barriera insormontabile.

 

Le tombe di cui abbiamo appena parlato, utilizzate in periodo nuragico ed anche successivamente, probabilmente appartenevano a stirpi di principi-guerrieri, capi di genti che nel mare avevano speso la propria esistenza. Forse proprio una di quelle etnie che, almeno da un certo periodo (XIII sec. avanti Cristo), venivano considerate appartenere ai popoli del mare, mitici guerrieri che saccheggiavano le coste del Mediterraneo, e che nelle rotte del sale marino avevano costruito la propria fortuna.

 

Uomini ancora più antichi navigarono ad oriente e ad occidente, a nord ed a sud, spingendosi oltre il mondo conosciuto, per commerciare la migliore ossidiana, chiamata preda crovina, l’oro nero che dava ricchezza e potere a chi ne disponeva.

Provenienti dall’Oriente, quando essi giunsero con le loro navi nella grande isola del Mediterraneo occidentale, questa dovette apparirgli come un giardino: florida e ricca di sorgenti e di selvaggina, sismicamente stabile e priva di animali feroci e di rettili velenosi, verde di boschi e prati, generosa di preziosi metalli.

 

Tale è stata sino a non molto tempo fa la nostra terra, prima della devastazione, folle e predatoria, operata nel trentennio successivo all’unità d’Italia (il famigerato taglio dei circa 650  mila ettari – un quarto dell’intero territorio della Sardegna – di foresta d’alto fusto di leccio, sughera e roverella) e dei devastanti incendi che, iniziati come conseguenza delle tensioni alimentate dall’Editto delle Chiudende, continuano tuttora a desertificare quel paradiso perduto, che la Natura ha posto in posizione privilegiata e strategica per il controllo delle vie di navigazione vecchie e nuove, sempre più alla ribalta nella cronaca per le vicende – e le polemiche – legate alla nota indagine giornalistica che la identifica con la mitica Atlantide*.

 

I naviganti di Montessu erano forse capi tribù di etnie caucasiche che, attraverso la Mesopotamia e la regione nord-africana, sbarcarono nel Sulcis in più riprese (viene addiritura ipotizzato un ritorno di questi uomini nella loro terra originaria!).

Essi portavano appresso cereali, alberi fruttiferi da piantare nella nuova terra, utensili, animali da allevamento, cani e…cavalli, simili a quei piccoli animali dalla chioma irta e breve e di natura perversa che Leone Africano descrisse riferendosi all’Arabia ed alla Numidia, ancora nel XVIII secolo presenti allo stato selvaggio nella selva di Canai, isola di Sant’Antioco (Cetti, 1774).

 

Assieme al giardino pensile di specie pregiate, nella parte idonea della nave (erano dei barconi che non avevano le dimensioni dei natanti attuali) ad essi riservata, i piccoli cavalli ed i loro puledri – erano di volta in volta ammucchiati in dieci ed occupavano poco spazio – sopportavano settimane di navigazione sottocosta sino alla traversata finale, della durata di un giorno ed una notte, dalla costa dell’attuale Tunisia (da La Galite, isola africana a circa 90 miglia da Sant’Antioco), che li conduceva alla destinazione finale, la fertile pianura sulcitana.

 

*in lingua azteca atlantis vuol dire luogo di acque ed ha lo stesso significato del punico suan duadi dal quale deriverebbe il nome di Santadi, il cui territorio in effetti è ricco di sorgenti.