Shardana
Navicella Shardana

Analizzando la geomorfologia e la batimetria dell’attuale arcipelago sulcitano, si possono ancora individuare quelli che in un passato remoto erano i confini naturali dell’Isola di Sant’Antioco. Considerando che durante il secondo pleniglaciale di Wurm, dal 28.000 B.P. al 14.000 B.P., il mare si ritirò toccando i -110 mt rispetto al livello attuale, possiamo, data la profondità del Golfo di Palmas e del Canale di San Pietro e individuate le linee batimetriche dei -20 mt, verosimilmente dichiarare che durante la preistoria e gran parte del periodo storico, non esistesse un arcipelago sulcitano ma un unico promontorio legato alla Sardegna.

Tale considerazione si è resa possibile grazie allo studio della cartografia storica relativa al Golfo di Palmas, all’osservazione della progressiva ingressione delle acque e all’occlusione e al graduale arretramento delle foci del Rio Palmas e dell’arcaico Rio Maqarba – Santu Millanu. Gli ulteriori interventi di antropizzazione hanno dato origine ad un impaludamento compreso tra le località di Corrulongu e Cruccianas e alla formazione di numerose lagune costiere ampliatesi, a seguito dell’impianto della Salina, sino al comune di Sant’Anna Arresi.

La prolungata presenza dell’uomo nell’area è testimoniata in maniera efficace da innumerevoli siti preistorici e protostorici di lunga durata e notevole estensione. I gruppi umani che si sono succeduti in epoca preistorica e storica nell’Isola, hanno avuto, nello sviluppo della propria cultura e per complessi fattori esistenziali, la necessità di navigare. Il bisogno si è creato quando le materie prime locali non sono state più in grado di soddisfare i fabbisogni delle comunità.

Vecchie credenze portano a pensare che il popolo dei Nuraghi non amasse il mare, ma ciò non è vero anzi è piuttosto vero il contrario. Sono diverse infatti, le strutture arcaiche presenti sull’isola le cui articolazione e complessità, legate a una collocazione costiera, fanno pensare ad un utilizzo prettamente marino. I Sardi del passato scelsero appunto dei promontori o l’interno di foci – pratica testimoniata anche da gruppi umani stanziati nell’Egeo –, opportunamente riparati dai venti dominanti e dai marosi, per sviluppare dei sistemi d’approdo definibili porti a tutti gli effetti.

Forse il più conosciuto della zona, di cui rimane traccia nella letteratura, è il Sulcitanum Portus, un ampio tratto formato da fiumi, terra e litorale inclusi ora nelle pertinenze dei comuni di San Giovanni Suergiu e Masainas e già anticamente sfruttato per l’imbarco di legname, metalli, sale e carbone vegetale. L’analisi fornita dall’articolo invece è mirata alla rivalutazione di una particolare insenatura presente sull’Isola di Sant’Antioco, su Portu de Coa ’e Cuaddu, opportunamente riparato ai venti dominanti della zona, e che ricalca un’abitudine insediativa di probabile origine neolitica.

Tramite lo studio di questa installazione, correlata a su Portu de Cal’e Saboni, intendiamo definire il criterio del doppio approdo da sfruttarsi alternativamente secondo le stagioni e i venti dominanti. Le insenature preannunciate si dispongono geograficamente a Oriente e a Occidente della Piana di Cannai, una pianura coltivabile di origine alluvionale solcata da diversi sistemi idrici e chiusa a 360° da alcuni gruppi collinari popolati anticamente da svariati insediamenti. Descrivendo la località denominata Porto di Coa ’e Cuaddu possiamo inquadrare un grosso arenile risultato dalla polverizzazione di una antichissima e più avanzata spiaggia fatta di fossili di molluschi impastati nella roccia effusiva.

Questo arenile esposto ai quadranti orientali è costellato, a partire dall’estremità settentrionale, da strutture turrite e affini che si elevano ben oltre il limite meridionale dell’insenatura, giungendo alla non lontana estremità sud dell’Isola di Sant’Antioco. Partendo da settentrione le emergenze si possono enumerare in un Nuraghe, sistemato a 42 mt s.l.m., denominato di Cala Bianca e costituito da macigni di calcare. Ancora seminterrato nella collina, visti i resti che spuntano dal piano di campagna, il Nuraghe di Cala Bianca doveva originariamente avere una struttura complessa.

Scendendo di quota verso l’insenatura scavalchiamo un rio che sfocia in spiaggia e costeggia delle fornaci rifasciate di basalto. Si giunge quindi, percorrendo un sentiero, al Pozzo de S’Àcua Durci, sistemato in pianura. A circa 50 mt di distanza ai piedi della collina mesozoica di Cala Bianca si trova un’altra fornace rifasciata, da questa, in direzione sud. Percorrendo meno di cento metri, si giunge ad una terza fornace di basalto interrata dalla sabbia. Abbiamo sottolineato la componente litica delle fornaci per evidenziare che in passato non erano usate per cuocere il calcare ma venivano impiegate nella metallurgia.

A Occidente si eleva un gruppo collinare di più cime, residuo di una caldera vulcanica, denominato Monte Arbus. Su una di queste cime insiste un Nuraghe trilobato, parte di un contesto estrattivo, denominato di Montarveddu, costituito da megaliti in andesite basaltica. Un’altra cima ancora, sistemata a Sud Ovest rispetto all’insenatura, ospita un altro Nuraghe trilobato, di nostra scoperta, detto S’Àcua e sa Canna, in collegamento visivo con la costa.