Il pensiero vaga, in questa uggiosa giornata nughedese, e con lo sguardo, vola a Sa roca de Santu Pedru, si sofferma tra le sfumature rossastre delle pietre nude, si arrampica fino alla porta di legno scuro della chiesa solo per  un attimo: quanto basta per comprendere che oggi, circondato dalle colline avvolte da una lieve nebbia, Nughedu ha aperto le sue vere porte, quelle del labirinto intricato che portano dal passato più remoto a oggi, attraverso un percorso fatto di storia semplice e quotidiana che si ripete infinitamente. Mi basta prendere il bivio che sale verso Monte Pirastru, percorrere in macchina poche curve dopo il paese e fermarmi nel primo spiazzo, proprio di fronte a Su furraghe per far perdere  il mio cuore  nel piccolo incanto che il paese mi sa regalare. Scendo dalla macchina nonostante la pioggia battente, aliti di vento mi sussurrano parole antiche. Una, pro su sole chi est pius mannu de sa luna….. dodici i rintocchi del campanile…e de tréighi non bi nd’ada e sa tempesta a fundu che siat falada…..e con il vento volano via dopo aver pregato contro la tempesta.

 

Mi fermo a guardare le colline ricoperte di boschi di querce, castagni e noci  che sotto il temporale assumono un colore verde scuro, quasi fossero già immersi nella notte e, al centro, fra le colline, Nughedu diffonde dolcemente la sua luce calda che si irradia verso l’alto, quasi a formare una sfera protettiva intorno alle case. Resto incantata ancora per un momento, meditando su quanto la routine giornaliera privi la mente di certi piaceri. Vorrei che chi venisse a visitare questi luoghi si inebriasse nel respirare i profumi che cambiano ad ogni stagione, che venisse a raccogliere funghi ed erbe selvatiche, che avesse voglia di arrampicarsi fino a Sa domo de s’istria e, dal cuore di  essa, si fermasse ad ammirare il paesaggio rimanendo senza fiato, seduto su antiche pietre che parlano ancora dei culti della Dea Madre e del Dio Toro, che dimenticasse l’orologio a casa per godere pienamente di ciò che lo circonda…così immutato da sconfiggere il tempo stesso… Mi corco in mesu s’erva e totu olvido,/inoghe, chi ch’at paghe, paghe ebbia,/ bella campagna chi che una  ‘ia/piena ’e milli incantos  torra t’ido. Vorrei portarlo a passeggio nelle ore più impensate, quando sas carrelas,  silenziosamente, offrono il loro aspetto migliore, camminare nelle strette vie lastricate de pedra lassina e osservare le imponenti case del 1800 che, oscure e misteriose, si mostrano con le loro facciate decorate e legni intarsiati fino ad arrivare alla fontana di Sant’Antonio per sederci sotto il grande albero di fico a ricordare la profezia che fecero le fate. Poi ancora giù, verso la bottega del fabbro o quella del falegname che, pazientemente, riproduce con abile maestria gli antichi intarsi, ascoltare i colpi di martello e quelli dello scalpello che  si fondono con i rintocchi delle vecchie campane.

 

Ancora risuona nella via principale l’eco tonante degli zoccoli dei cavalli incalzati dal ritmo frenetico de sos tamburinos di Oristano. I cavalli quasi volano guidati da abili condottieri, maestri dell’equilibrio, e la folla urla e incita incatenata ad attimi di fremente passione. L’eco si allontana,  il temporale  si dirada, diventando quasi un mormorio lontano, ascolta bene, proviene dall’interno delle case, è la sera dell’Epifania e i bambini  diventano i padroni delle vie avvolte nell’oscurità, chiedono di cantare dell’incontro de sos tres res con il bambino appena nato, chiedono piccoli doni. E dal canto dei bambini al vociare festoso de su Carrasegare. Visitatore, oggi sei amico di tutti, oggi Dioniso ci apre le sue porte e prende il sopravvento su ogni volontà. È giovedì grasso, momento di rottura assoluta della dimensione quotidiana, in cui si dà spazio e vita al cuore del paese che apre la sua piazza per ospitare e accogliere a braccia aperte chiunque abbia voglia di godere del grasso profumo del favellardo ribollente nei calderoni. Poi ci saranno sas catas affogate nell’olio bollente, ancora calde nello zucchero, tutto a disposizione di chi vorrà unirsi alla grande festa, danzando mano nella mano con qualche jana venuta giù dai boschi o imbattendosi in Dioniso stesso col fiasco di vino sempre pieno e pronto da offrire ad un nuovo amico. Ne rimarrà sempre un po’ per il re del Carnevale che, dopo aver danzato follemente e rincorso le sottane ogni notte, si lascerà trascinare, ormai sfinito dai bagordi e agonizzante, attraverso sas carrelas, accompagnato da s’atìtidu dei paesani. Essi poi ne bruceranno il corpo in piazza e, dalle sue ceneri, ancora una volta, Dioniso si libererà di Giolzi per tornare tra i boschi, in attesa che un nuovo ciclo dell’anno si compia.

 

L’eco confuso e rumoroso  de su Carrasegare svanisce come il temporale che ancora  si sente in lontananza. I profumi sono cambiati, l’odore dell’erba umida del mattino si mescola a quello del  latte appena munto che si intreccia a quello leggermente acidulo del formaggio. Le ceste cominciano a traboccare di casadinas, tilicas, copuletas, papassinos e seadas, una nuvola apre le sue braccia per mostrare il suo cuore e un raggio di sole illumina una finestra socchiusa. Vieni con me ora, dimentica ciò che è stato, ascolta la voce delle donne, si ride e si chiacchera ma le mani non smettono di  cariare. E dalla pasticceria della piazza, l’impalpabile nastro profumato de sos dulches  dà il  benvenuto anche al visitatore più esigente. È comunque sempre buona l’occasione per donare: i bambini corrono su antichi sentieri percorsi migliaia di volte a suonare nelle case di comari e compari per consegnare piatti di dolci appena sfornati. E in Chiesa, nelle note  del Coro a Concordu Santu Nigola, aleggia Sa passione di Cristo. È un canto che scandisce il tempo nei giorni della Settimana santa, i cui riti vengono fedelmente riprodotti dai confratelli di Santa Croce della Vergine del Rosario, oggi come allora: s’iscravamentu, di nascosto, nella chiesa a porte chiuse, sa roda che proietta immagini sacre, il rito del lavabis dei piedi fino a s’Incontru della Madonna con Gesù,  del sacro e del profano, quando gli  spari, dai tetti del paese, coprendo quasi il rintocco festoso delle campane, sono la voce del  popolo che vuole celebrare la vita.

 

Torna l’eco di Dioniso in una festa del vino che vede in gara i  produttori locali. Il mese dopo, il rosso del vino si fonderà  con l’arancio scoppiettante de sos fogarones de Santu Juanne e Santu Pedru dove i bambini, a man’a pare, diventeranno, saltando attraverso il fuoco, i compari di domani. Gesti dal sapore antico come il sapore de sas panafitas cotte nel brodo di pecora che saluteranno l’arrivo dell’estate mentre i bambini, protagonisti indiscussi delle feste, accompagnano la gioia del paese  in su ballu tundu, su ballu longu, su passu torradu  in cui passato e futuro si dànno la mano. Nessuna fretta in questi balli, nessuna acrobazia, soltanto il ritmo, l’eleganza e la compostezza di chi è già consapevole del fatto che le tradizioni vadano portate avanti come sono. Il gruppo Mini folk ballerà ancora alla festa di Sant’Antonio Abate, la più importante del paese, resa indimenticabile dai giovani che dànno il meglio di sé nell’organizzazione. Sonat un’organitu, una chiterra/ e una ‘oghe si pesat e narat/ su tonu sou, tota sa maja/ antiga e sempre noa,/ muda e sena fine,/ chi ancora coberit custa terra:/ sa terra de sas fadas,/ de sos zigantes, de sa zente’ona.

 

Ma Nughedu non è il paese delle fate. La voce del  vento risuona anche  in folate che sussurrano rancori, incomprensioni: è storia di tutti giorni, dovunque e comunque là dove gioie e sofferenze, fatica e appagamento possono cambiare le prospettive di tanti, soprattutto se vissuti in un presente  privo di sogni.  Ma  anche questo, forse,  è poesia, quando la poesia si respira sin dalla nascita. E non mi riferisco solo ai grandi poeti che non hanno bisogno di presentazione. L’amore per la poesia è qualcosa di innato nel nughedese. E poesia è anche sogno di un Museo multimediale che ne diffonda la voce: il sogno di una Casa Museo dedicata al grande  Francesco Masala. In fondo i sogni possono diventare realtà, come quello della Mostra-Museo che timidamente si sta concretizzando.

 

Tutto questo perché, forse a Nughedu più che altrove, ci si può permettere il lusso di trascurare il superfluo, così essenziale in quei luoghi dove è più sbrigativo e soddisfacente riempire le tasche piuttosto che colmare il cuore e l’anima. Forse a Nughedu è più facile farsi accarezzare dalla mano del tempo che passa, in  uno spazio dove è anche bello annoiarsi, lusso ormai sconosciuto, e far traboccare l’anima di sensazioni  tanto rare ed ancestrali da  riunire con un cordone ombelicale l’uomo alla sua storia. Ognunu at presse, e a sa tzega fuet/ che persighidu, cun su coro in buca:/ benit e passat trambuca-rambuca,/ inoghe ruet, cuddae che ruet. La storia del singolo non è niente, all’interno della popolazione mondiale, diventa affascinante se ascoltata singolarmente, Così accade per l’antica voce di questo paese che merita ancora di essere ascoltata. A questo proposito vi saluto con un pensiero caro al grande Maestro Cicito Masala: “Qualcuno potrebbe chiedermi: ma tu non fai altro che parlare del tuo villaggio? Bene, gli risponderò che Leone Tolstoj mi ha detto all’orecchio: descrivi il tuo villaggio e  diventerai universale, se cerchi di descrivere Parigi diventerai provinciale”.