Tra la fine del 1800 e primi anni del 1900 l’Europa è animata da un’ondata di scioperi e proteste popolari, tese alla rivendicazione di migliori condizioni di vita e di lavoro. In Italia nonostante le aperture dei governi liberali, la situazione del Meridione e nelle isole resta complicata.
Il giorno 4 settembre 1904 gli operai della miniera Malfidano di Buggerru si sollevarono in una protesta contro la riduzione dell’orario di riposo. La lotta sfocerà in tragedia con la morte di tre lavoratori per mano delle forze militari, richiamate d’urgenza dal direttore della miniera. Di seguito è riportata la cronaca pubblicata dall’”Avanti!” il giorno 6 settembre 1904, il titolo è inequivocabile:
Altri morti e feriti proletari. (…) Il cronista scrive: «Mentre telegrafo una commissione di operai accompagnata dal sottoprefetto, dal dottore Cavallera e dal compagno Battelli, conferisce col direttore. La situazione è gravissima. È arrivata la truppa da Cagliari». Alle 16.20, mentre i soldati chiamati dal responsabile della miniera prendono alloggio nella falegnameria, dopo 7 ore di marcia estenuante da Iglesias, si scatena la rivolta. Un gruppo di duecento minatori insegue i militari e tenta di impedire ad altri lavoratori di allestire la caserma: «La truppa si oppone respingendo alla baionetta la folla eccitata», prosegue l’Avanti!. «Grande confusione da ambo le parti. Qualche sasso ferisce dei soldati che sparano quasi a bruciapelo 12 colpi. Fuga urla e terrore generale!». Per Felice Littera, 31 anni, e Salvatore Montixi, 37 anni, la morte è istantanea. Colpiti dai proiettili, cadono a terra senza vita. Giustino Pittau e Giovanni Pilloni, feriti gravemente, se ne andranno qualche giorno dopo. Sentiti gli spari, il leader socialista Giuseppe Cavallera e il segretario della Lega dei minatori Alcibiade Battelli che trattavano la ricomposizione dello sciopero con il direttore della miniera Achille Georgiades, si precipitano in piazza dove buona parte dei manifestanti attende l’esito della mediazione e accorrono in falegnameria. «Il compagno Battelli tratteneva arringandola la maggioranza degli scioperanti sul piazzale della direzione. Il dottor Cavallera, insieme col capitano di fanteria, si precipita fra i sassi e le palle per calmare gli animi ed ottenere la cessazione del fuoco e della sassaiola; trovano a dieci metri dai soldati un operaio morto e due feriti stesi a terra. Altri feriti fuggivano. Parecchi soldati avevano ferite non gravi. A stento fu ristabilita la calma. Ma troppo tardi! Gli arrestati sono tre. Degli operai feriti due sono morti, altri tre sono ricoverati in ospedale».
Il popolo delle tenebre.
Le condizioni di vita della popolazione di Buggerru rappresentavano la condizione di estrema durezza alla quale erano soggetti tutti i sardi che abitavano le terre in cui si viveva di miniera. Il centro, che si affaccia sulla costa Sud occidentale dell’isola, era allora un grosso borgo di 9000 abitanti, circondato dalle miniere di calamina, blenda e galena. I salari erano molto bassi, e il duro sfruttamento padronale costringeva i minatori a una vita miserabile. Per quanto riguarda la retribuzione salariale, il livello dei compensi era più basso rispetto alle altre regioni del paese. L’organizzazione delle aziende tendeva all’impiego estremo della manovalanza che era impiegata fino a nove ore all’interno della miniera e a undici all’esterno. Le società minerarie oltretutto si assicuravano un’ulteriore speculazione sui lavoratori tramite il truck-system. I pozzi e le abitazioni erano spesso localizzati in luoghi distanti dai centri abitati e gli operai erano costretti ad acquistare presso gli empori dell’azienda i generi necessari alla sopravvivenza. Le case dei minatori sono descritte nella documentazione del periodo, come catapecchie fatiscenti, dove gli uomini vivono ammassati in disastrose condizioni sanitarie. Le aspettative di vita erano bassissime e molti giovani accusavano malattie dovute al lavoro esercitato fin dall’infanzia. A Buggerru, rispetto ad altre località minerarie, la cerchia dei dirigenti poteva condurre una vita sociale raffinata. Era chiamata nelle cronache giornalistiche del tempo “Petit Paris”. C’erano un teatro, un cinema e non mancava un circolo. Esclusi da tutto questo migliaia di minatori, reclutati tra ex contadini ed ex pastori poverissimi, ai quali si aggiungevano altri salariati addetti alla cernita e al lavaggio dei minerali, in gran parte donne e ragazzini non di rado minorenni. Tutto, a Buggerru, apparteneva alla Societé: i terreni, le baracche, le scuole, la chiesa, persino il cimitero.
Il primo sciopero nazionale.
L’eccidio dei lavoratori di Buggerru dà l’avvio a un’agitazione politica di livello nazionale tale da generare il primo sciopero nazionale della storia italiana, proclamato dalle organizzazioni dei lavoratori per il giorno 16 settembre dello stesso anno. L’ordine del giorno faceva esplicita richiesta che le truppe non intervenissero più nel conflitto fra capitale e lavoro. La richiesta fu espressa anche in occasione delle altre morti a Castelluzzo, in provincia di Trapani, durante uno scontro fra cittadini e forza pubblica. Il dramma di Buggerru è uno dei momenti più importanti del movimento di lotta operaia italiana, ma non può essere spiegato solo con le condizioni di estrema durezza e d’oppressione in cui vivevano i lavoratori delle miniere sarde. Lo sciopero nazionale ebbe un significato molto importante, anche se non portò i risultati che i promotori si erano prefissi; segnò da una parte la fine dell’illusione giolittiana di governare il paese con il supporto di una classe operaia disposta a rinunciare alla coscienza sociale recentemente acquisita, e dall’altra la presa di coscienza da parte del partito socialista, di non poter più sostenere una politica di compromesso con la borghesia, in attesa di nuove aperture sociali.