paolo fresu1Parlaci della tua esperienza di concerti nelle carceri della Sardegna.

 

Per i festeggiamenti dei miei cinquant’anni ho fatto due concerti nelle carceri. Uno a San Sebastiano a Sassari, l’altro nel carcere minorile di Quartucciu. Due realtà diverse, ma molto forti.

 

Suonare per i carcerati che a livello umano vivono una dimensione di chiusura, ma dove invece la musica è espressione di apertura. Cosa leggevi nei loro occhi?

 

Si è trattato di due esperienze emozionanti. C’era molto silenzio. Nel carcere minorile, dove i ragazzi sono pochi -credo che in questo momento siano quindici o sedici- erano attenti sulle richieste. È stato molto bello dopo: finito il concerto hanno organizzato un rinfresco nel piccolo cortile dove stavo con tutti loro a farci le foto insieme, e mi chiedevano se ero stato nelle loro città, se conoscevo quello o questo. C’erano due magrebini di Casablanca ai quali ho raccontato che conosco molto bene il Marocco. Sono stati tutti molto cari. A Sassari il rapporto con i detenuti è un poco più difficile, il carcere è grande, quasi 180 carcerati. Al concerto c’erano quasi tutti perché era loro facoltà decidere se venire o no. È stata una bellissima esperienza: dalla mitica rotonda di San Sebastiano, dove arrivano tutti i bracci, vedi tutti quelli che ci sono dietro le sbarre. Concerti nelle carceri ne ho fatti molti, come a Badu ’e Carros. Vado ogni anno ed ogni volta si è un poco impreparati perché è una realtà umana molto dura, molto formativa, molto bella.

 

Ti hanno fatto domande particolari?

 

No, domande particolari non ce ne sono state. Alcune del tipo: per quale squadra tifi, quanti anni hai. Mi davano del lei, i ragazzi di oggi. Nn c’è tempo per approfondire un dialogo complesso, però è emozionante in tutto.

 

Pensi che la musica e le arti possano aiutare, vista la situazione delle carceri italiane e considerato che il carcere oggi non è così educativo?

 

Sicuramente la musica fa molto per tutto, perché in questi cinquanta giorni abbiamo spesso parlato dei Radar e del Salto di Quirra. Abbiamo parlato di solidarietà, di energia. La musica diventa un veicolo straordinario considerando che in questi cinquanta giorni ci hanno visto e sentito oltre centomila persone. Un dato pazzesco! Tutta gente che si porta a casa un pensiero, un messaggio, se penso a tutto quello che facciamo con le energie rinnovabili, impatto zero, o con Amnesty International. Abbiamo fatto il tour dei Radar senza saperlo. Siamo stati a Carloforte, a Sant’Antioco mentre nell’Argentiera a Santa Teresa e Tresnuraghes indossavo la maglietta e parlavo dei Radar. Insomma sono state tantissime occasioni per utilizzare la musica anche per denunciare alcune situazioni drammatiche.

 

Quest’ anno dedichi il tuo festival di Berchidda al tema della Terra. Che futuro prevedi, visto che sei anche padre e, come diceva Cicitu Masala, “ci siamo votati al dio petrolio distruggendo la Terra?

 

Mi sembra che un po’ di cose stiano cambiando in positivo. La gente ha preso coscienza del fatto che non si può andare avanti così. Non può essere il nucleare, bisogna trovare alternative. Bisogna essere rispettosi dell’ambiente e consumare di meno: questi valori credo stiano prendendo piede un po’ dappertutto. Il problema è che c’è un meccanismo più alto che comunque distrugge tutto da quando c’è il dio moneta. La gente ha voglia di cambiamenti. Io lo vedevo tutte le sere, quando parlavo delle energie c’era sempre un grande applauso. Quindi significa che la sensibilità è cambiata. Però poi concretamente ancora le cose non si fanno. Ci sono degli interessi contrari molto forti e il cambiamento non sarà così immediato.

 

Paolo, mezzo secolo  “nel cammin della tua vita”: bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

 

Una sintesi di questo tuo viaggio esistenziale. Sintesi non ne faccio, ritengo che cinquanta anni non siano un momento adatto a fare bilanci. È un momento di transizione, di passaggio. Non è cambiato niente rispetto a prima. Non mi sento né più giovane né più vecchio e dico solo che anche l’esperienza di questi cinquanta giorni è stata un po’ una follia, una scommessa che è servita ancor di più dei prossimi cinquanta. Se ci saranno bisognerà dedicarli alle cose. Non basta solo suonare la tromba. Quindi utilizzerò lo strumento della musica, come sto già provando a fare, per dare un senso alle cose. C’è solamente una constatazione e un prendere coscienza sul fatto che ho avuto la fortuna di fare delle esperienze. Ho anche la fortuna di essere un musicista affermato e stimato e questo fa sì che ancor di più abbia la responsabilità di portarmi addosso un peso, quello di usare lo strumento comunicativo che conosco e che raccoglie i consensi di molta gente per dare un senso a ciò. Non basta suonare la tromba, c’è qualcosa di più importante, per quanto suonare la tromba sia importante, ma se dietro non c’è un sentimento a sostenerlo non ha senso. Quindi quello che farò sarà continuare a suonare, a fare altre cose, a produrre cultura e proseguire con il Festival di Berchidda e con la mia casa discografica per i giovani.