Un noto accademico cagliaritano in un recente saggio Sull’Identità ha scritto che il riconoscimento delle differenze deve preludere al loro superamento.
Io penso esattamente il contrario: ovvero che le differenze occorre rafforzarle, valorizzarle ed esaltarle e non già “superarle”. Dico subito però che l’identità di cui ragionerò, individuale e collettiva, non è una realtà astratta, metastorica, immobile, bensì concreta e dinamica: non naviga cioè nei cieli della metafisica ma cammina nella materialità corposa delle vicende e dei processi reali in cui si contamina, si trasforma e si costruisce-ricostruisce.
Unitarismo, globalizzazione e risveglio identitario
Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l’ideologia, vacuamente ottimistica e credente nelle magnifiche sorti e progressive, tutta basata su uno sviluppo materiale illimitato, che avrebbe dovuto eliminare le nazionalità marginali, le diversità linguistiche e culturali, bollate sic et simpliciter come primordiali, quando non veri e propri residui e cascami del passato.
Sull’altare di tale progresso, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza della tecnostruttura – di cui parla Jean Braudillard – ovvero sulla tecnologia e gli apparati di dominio politico, si è devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema e nel contempo sono state sacrificate e distrutte culture, risorse artistiche, codici.
Si è trattato e si tratta – perché il perverso processo, sia pure oggi messo in discussione continua – di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci rende noto il Centro studi di Milano Luigi Negro, secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante civiltà, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Con questo ritmo, persino i più ottimisti fra i linguisti – ricordo per tutti Claude Hagè – prevedono che tra appena cento anni la metà delle settemila lingue ancora parlate nel pianeta oggi, scomparirà.
Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato che occorreva trascendere e travolgere le arretratezze del mondo barbarico – per noi Sardi barbaricino – le sue superstizioni, le sue aberranti credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio- economico -culturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati –e dunque delle etnie dominanti– a omologare, in nome di una falsa unità della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto portatrici di codici altri, scomodi e renitenti, ossia reverdes.
Quella unità di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga nel suo recente suggestivo e potente romanzo, Capezzoli di pietra: Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis.
Che vorrebbe un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile.
Quell’unità e quel pensiero unico che – ha scritto il parlamentare europeo Nichi Vendola – abolisce le stagioni, sospende il tempo, rende insignificante il contrasto fra il caldo e il freddo, ammutolisce la politica, mette al bando l’idea stessa del cambiamento.
Omologando destra, sinistra e centro; annullando progressivamente le specificità; ibernando nella bara della tecnica, del calcolo economico, della mercificazione, della globalizzazione le identità politiche, sociali, etniche.
Oggi, dicevo, fortunatamente, sia pure con difficoltà e lentamente, inizia ad affermarsi la consapevolezza che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli.
Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche Identità: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una via locale alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.
Su queste problematiche è stata già prodotta una vera e propria letteratura a livello mondiale: penso a economisti come Rifkin o a scienziati e teorici dell’ecologia sociale come Vandana Shiva, indiana, che in Sopravvivere allo sviluppo denuncia le distorsioni irreparabili della globalizzazione capitalistica, scrivendo che: le necessità materiali dei poveri potranno essere soddisfatte soltanto quando l’economia naturale e le economie di sussistenza saranno robuste e resilienti. Per garantire che lo siano dobbiamo farla finita con l’ossessione per l’economia del mercato globale e per la ricchezza. La crescita finanziaria che distrugge la natura è la formula per aumentare la povertà e per degradare ancor più l’ambiente.
O penso all’italiano Enzo Tiezzi che in Tempi storici e tempi biologici ci ricorda i limiti oggettivi delle risorse naturali – soprattutto energetiche – e quindi dello sviluppo, l’era del mondo finito di cui parlava Paul Valery. O a Levi-Strauss e Joseph Rothscild che in Il pensiero selvaggio il primo e in Etnopolitica il secondo denunciano la distruzione e/o devastazione delle culture (e delle economie) deboli. O ancora al teorico marxista e terzomondista Samir Amin che il “La teoria dello sganciamento” prospetta la necessità di fuoruscire dal sistema occidentalista.
O infine all’americano Alvin Toffler che in La terza ondata sostiene la crisi dell’industrialismo e la necessità di una nuova civiltà, non più basata sulla concentrazione-centralizzazione-standardizzazione-omologazione.
E’ dentro quest’universo di contestazioni e insieme di proposte che da anni è in atto nell’intero Pianeta un forte e ubiquitario risveglio etno-identitario, in cui convergono nazioni senza stato, partiti e sindacati etnici, l’ambientalismo sociale, culture alternative, gruppi e comunità locali.
Tale risveglio etno-identitario, non si pone come fenomeno passatista e nostalgico rispetto a un passato che non c’è più ma come fenomeno moderno e postindustriale: come protesta e lotta contro gli Stati, accentrati e oppressori delle minoranze nazionali coattivamente incorporate. E si pone dunque come rivendicazione e proposta perché le minoranze, le nazionalità marginali e le etnie vengano riconosciute e valorizzate nelle loro identità: da quelle politiche a quelle storiche e culturali, da quelle economiche e produttive a quelle ambientali, geografiche, alimentari.
Identità e storia
Sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo.
La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale.
Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione. Sia ben chiaro: la coscienza di essere diversi non esclude la consapevolezza di essere e di vivere dentro un universo più vasto.
La conoscenza della nostra storia, delle nostre radici etno-culturali, le nostre specificità artistiche e musicali, ci aiutano a superare i conflitti fra le diversità, in quanto la coscienza della nostra storia peculiare deve portarci non all’esaltazione acritica del nostro passato, magari in termini mitologici, né all’etnocentrismo, né alla chiusura verso l’esterno e/o il diverso: bensì al dialogo e alla tolleranza e – perché no? – alla contaminazione e al meticciato, in cui la nostra Identità si plasma e si trasforma, arricchendosi e irrobustendosi con l’innesto di nuove culture.
In quest’ottica la nostra Identità non può tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, senza cedere alla tentazione – osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora di significati autodepressivi”.
Identità e lingua
La Lingua essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – scrive Giovanni Lilliu –dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.
Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.
Nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere.
L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: un frivolo sogno lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile.
Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese.
Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Canetti a Celan, da Nabokof a Brodskij, da Singer a Rushidie, da Gombrowitz a Naipaul.
Identità e folclore
Occorre leggere e interpretare l’Identità – scrive opportunamente Alberto Contu- non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità certifica la morte dell’identità stessa.
Di più: quando ci si interroga sull’identità – scrive magistralmente Bachisio Bandinu in La Maschera, la donna e lo specchio, Spirali editore, Milano 2004 – vuol dire che si sta sperimentando una condizione di disidentità. Si cerca qualcosa che si è già perduta…Si piange il corpo morto e si tesse il manto luttuoso del ricordo e del rimpianto. Opera il fantasma della madre tradizione. Si arreda lo spazio di monumenti, documentazioni, mappature, rituali, tutti timbrati inesorabilmente al passato, secondo una concezione museale. Si ricostruiscono i luoghi sacri della malinconia. Ricorrenze, ripetizioni e fantasie di rinascita. È un lutto senza elaborazione. Così codici e scritture, riti e narrazioni, usi e costumi non prendono la forma del tempo attuale, La fissazione all’oggetto perduto produce le folclorizzazioni che sono delle rappresentazioni mortuarie.
C’è un enunciato, imperativo e malinconico, davvero sintomatico che ricorre nel discorso sardo: torrare a su connotu, ritornare al conosciuto. Su connotu è visto come uno spazio reale e simbolico di garanzia, ricco di valori è costituito dal patrimonio storico, archeologico, artistico, linguistico e culturale, ma inteso come tesoro da custodire, senza investimento.
L’identità non è un dato dunque che si contempla: quando ciò avviene vuol dire che il fenomeno è ormai svanito. E neppure semplicemente si studia o si indaga: questo avviene infatti quando essa viene a mancare o si è trasformata in oggetto estraniante. Pensiamo alle lingue morte che sono sempre oggetto di attenzione alla luce fioca dei tavoli accademici, quando il morto è sezionato e classificato. O pensiamo alle lingue, le arti, le tradizioni sempre più materia per i nuovi entomologi.
Identità come percorso, processo e progetto
L’identità che occorre difendere e rivendicare e far crescere non è quella che si esprime in un isolato e fermo recupero e cernita di memorie e tradizioni ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero.
Occorre partire dal luogo della differenza per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra.
L’identità non è un dato, rassicurante e immobile, ma un elemento dinamico, da rielaborare continuamente, da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob – continua Contu – che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici.
In quest’ottica – utilizzo ancora l’affilata e pregnante prosa di Bandinu – la tradizione non è un luogo, è il traditur come procedere del tempo. L’elaborazione del passato trova il suo punto di progettazione come investimento nell’impresa del dire e del fare…Il passato non è svelamento magico di un tesoro e neppure contenuto sostanziale di cui appropriarsi. È il percorso narrativo del farsi del linguaggio…Non si tratta di fare un cammino a ritroso per abitare la vecchia casa, è piuttosto un percorso prospettico che avvia un modo nuovo del dire e del fare. Il passato come rielaborazione per cogliere la specificità del tempo attuale.
L’identità dunque è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.
A mo’ di conclusione
E invece cosa succede in Sardegna?
Ohi ohi ohi cosa siamo diventati – fa dire Salvatore Niffoi a Bachis, il protagonista del romanzo La sesta ora – né antichi né moderni, né altri né noi stessi!
Quel fuggire rimanendo incatenati, quel restare col prurito di Ulisse nel culo, era tutto uno stillicidio di sangue che si versava nel limbo del non tempo, altrove e lui non se ne chiamava fuori, anzi: si torturava e s’interrogava, su quel rapporto magico e maledetto che aveva con la sua gente, la sua terra. Un cane randagio era.
Un cane randagio che non stava bene da nessuna parte, che non si sentiva a casa né in acqua, né in cielo, né in terra. Che cosa aveva fatto per cambiare le cose ad Ularzai? Niente! E se avesse passato i suoi giorni a tribolare per il suo paese, sarebbe cambiato qualcosa? Di sicuro niente! Forse, quella terra malinconica, i suoi figli li voleva proprio così: che non facessero niente, che capissero fin da piccoli l’inutilità del fare, che tanto è tutto inutile….
O no?