ceramica IIISu un cartello che ha il colore della terra, all’ingresso del paese di Assemini, si legge: Comune di antica tradizione ceramica. Racconta tante cose, quel cartello: racconta l’orgoglio di essere tra le 31 città in Italia ad avere il marchio doc per quest’arte antica, racconta che più della metà delle edizioni dei Mondiali Tornianti sono state vinte da asseminesi, racconta dei quasi 20 laboratori artigiani del paese che testimoniano la voglia di proseguire un’arte che ha piantato radici puniche a S. Andrea e Sa Mura.

 

Ad Assemini i ceramisti oggi hanno eleganti e luminosissimi negozi dove vendono i loro prodotti e figli giovani che con gli anni hanno arricchito la produzione dei manufatti dei padri con manufatti dalle forme stravaganti e dai colori sorprendenti, forme di un’arte nuova che parla della fantasia e della genialità dell’autore.

 

Io cerco la traccia dell’argilla, cerco una poesia diversa e un diverso incantamento. I Carboni creano e vendono in un capanno nelle campagne di Assemini, molto lontano dai negozi eleganti. I pavimenti lucidi non sono necessari, qui. Creano e vendono proseguendo un’arte che gli appartiene da sei generazioni ma conservandola immutata, strexiaius a dispetto delle mode e del tempo, e nei segni dei loro visi leggi distintamente quella sfida propria dei grandi sogni romantici.

 

Il capanno prende luce da una finestrella alta che illumina l’angolo del tornio.

Salvatore ha capelli candidi e mani grandi, chino crea salvadanai con carezze di terra.

C’è una misura per la fatica? E per il sacrificio?”. Me lo chiede sorridendo.

 

Hanno superato i settanta anni, i due fratelli Carboni, e sono gli ultimi custodi di una tradizione nella sua forma antica e immutata, originale.

 

Abbiamo frequentato la scuola solo sino alla quinta elementare, tabelline e lavoro. L’università sapevamo che esisteva a Cagliari, la nostra l’abbiamo frequentata qui: all’inizio solo terra sarda, scavare e grigliare, pestare con i piedi, macinare e poi lavorare con le mani, come pane. Il tornio era l’ultima fatica. E poi c’era la cottura, lì non potevi sbagliare. Adesso è più facile, i forni elettrici hanno i programmi ma ai nostri tempi si cuoceva a legna e il programma era la tua esperienza, sbagliare per molti ha significato il fallimento.

 

Spiare il cielo per capire quale era il giorno giusto per la cottura.

Guardavamo a maestrale, babbo ci aveva insegnato a stare attenti, se gocciolava a mezzogiorno, bastavano solo tre gocce, avrebbe sicuramente piovuto. Ultimamente però prendevamo qualche fregatura perché l’atmosfera è cambiata, questo tempo è difficile da riconoscere.

 

Caricare il forno tutti assieme, con i pezzi lanciati da mano in mano e poi il momento del fuoco, all’imbrunire, quando il rosso della fiamma è più nitido e dalla sua intensità l’occhio attento misura i gradi.

 

La notte il fuoco usciva dall’apertura superiore e il forno sembrava un vulcano. Adesso cuociamo con i forni elettrici, gli ultimi a spegnere il fuoco in paese siamo stati noi. Avevo 5 o 6 anni. Cosa avrei fatto se non fossi stato ceramista? Non lo so, non c’era molta scelta allora e quando è arrivato il momento di scegliere ho scelto questo. Non è stato facile.

 

Con tristezza osserva il vecchio forno all’ingresso del capanno spento da anni e curvo sotto il peso dell’abbandono e i suoi occhi guardano cose che io non posso vedere. Antonio accarezza con la mano il piano del forno, che mani grandi hanno gli anziani! Alle sue spalle giovani alberi di fico dai rami grigi e tortuosi.

 

Nel capanno tutti i pezzi hanno il colore rosso della terra feconda. Utensili domestici, quelli di sempre, immutati: casseruole per il sugo dei giorni di festa o per cuocere la selvaggina, tegami alti per le zuppe o per bollire le fave, le brocche per l’acqua, le scivedde per la fregola o per gli impasti dolci del carnevale, le tazzine per il caffè e le chiacchiere tra comari e i salvadanai panciuti per i sogni dei bambini.

 

Passeggio in questo capanno ombroso abitato dalla malinconia delle cose passate, respiro la nostalgia di ciò che è stato, ascolto il silenzio pieno dei sussurri di chi non c’è più di chi ha vissuto, amato, e ha scelto di sporcarsi le mani di terra generazioni prima che i Carboni aprissero gli occhi su questo mondo diventato impressionatamente veloce e vorace, che non vuole memoria.

 

Non pensarci neanche di diventare ricco facendo questo lavoro”, quante volte avrà sentito queste parole Mauro Carboni da suo padre Antonio. ”Qui molti soldoni non ne sono mai arrivati. Fatica e sacrificio. Quelli sì. Senza misura”.

 

Ma le strade della vita molte volte sono come i rami del giovane fico, grigie e tortuose e per quanto si possa camminare esistono richiami da cui non si scappa, e Mauro oggi ha deciso di stare qui, di prendere dalle mani grandi del padre e dello zio quel filo della conservazione della memoria e cercando il suo modo di accarezzare la terra crea maschere ghignanti perché si ha sempre necessità di difendersi dai demoni e perché forse, certe volte, dietro la gioia si nasconde sempre un po’ di dolore.