culurgioniCi si avventura sempre con precauzione nel tracciare la storia o l’evoluzione di un alimento ed in particolar modo de sos culunzones, angelotos ecc., un po’ perché esistono molti trattati ma poco dettagliati. Si deve perciò percorrere un itinerario abbastanza intricato. Come un comunissimo ma esperto investigatore si devono seguire le minuscole tracce anche se all’inizio  appariranno del tutto confuse. I  testi che hanno affrontato l’argomento, nel corso del tempo, non sono esaustivi in quanto l’hanno trattato con superficialità, oppure si sono persi  in campanilismi che hanno fatto  perdere il filo della ricerca storica e filologica.

 

Su culunzone, e cioè il raviolo, nella sua composizione è un alimento complesso e raffinato,  quindi per seguirne la sua evoluzione è necessaria la conoscenza di buona parte della storia della gastronomia del bacino del Mediterraneo. Dico alimento complesso perché si realizza con diverse forme, ingredienti, cotture e condimenti.

 

La prima diversità è nella preparazione: con o senza l’involucro di pasta, il quale  può essere fatto  con diversi ingredienti, ad esempio:  di farina di semola di grano duro nel meridione d’Italia, di grano tenero e uova nel settentrione. Il ripieno può essere: di verdure, formaggio, ricotta, carne, pesce o spezie. Può essere cotto in brodo, lessato,  in salsa e  condito con burro, erbe o sughi vari. Tutti questi elementi inerenti la composizione, la preparazione ed il consumo del  raviolo, racchiudono numerosissimi concetti storici della gastronomia, che bisogna analizzare  singolarmente per tentare  di  scoprirne l’origine.

 

Sull’origine dei termini di raviolo, tortello tortellaccio, anolino, agnolino, cappelletto ecc. c’è grande confusione e, se si aggiungono i nomi sardi (culunzones culingionis, culurzones, culurjones, purulzoni, anzelotos, angiolotus, spighiti) la confusione  raddoppia. Oggi le differenze sono solo terrioriali: il cappelletto è romagnolo, l’anolino parmigiano, l’agnolino mantovano, il tortellino bolognese, l’agnolotto piemontese, su culunzone sardo, ecc.

 

Proviamo a tracciare la strada percorsa dal raviolo per poi giungere a sos culunzones o angelotos. I Romani conoscevano sia  la farina di semola di grano duro che quella di grano tenero ma non concepirono la pasta per come noi oggi la intendiamo. Catone il Censore ci lascia indicazioni precise sull’impasto di farina e acqua e Marco Gavio Apicio, il più grande cuoco della Roma Imperiale, ci tramanda ricette su di una pasta sicuramente simile alla lasagna dal nome, al singolare, lagana e laganum. Una ricetta di Apicio dove usava la lagana  è intitolata ”patinam apicianam sic facies” – torta di Apicio –, già una specie di raviolo.

 

La lagana è parola d’origine greca derivata da làganon.  Studiosi, come Ateneo del II sec. d. C., ipotizzavano si trattasse di un pane leggero e poco nutriente, altri parlano di un impasto di acqua, farina e sale che veniva consumato fritto oppure cotto con i liquidi degli ingredienti che componevano il piatto. La storia della gastronomia italiana,  dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente fino al pieno Medioevo, è priva di informazioni utili alla ricerca. Se allarghiamo il nostro angolo visuale notiamo che ultimamente sono stati tradotti diversi libri di cucina medievale di  lingua araba e scopriamo che contengono importanti informazioni sul raviolo.

 

Noi sardi siamo portati a pensare che pochi siano i collegamenti con gli arabi. Invece, direttamente o indirettamente, la nostra cucina ne è influenzata. Sul raviolo ci arrivano indicazioni con il Liber de ferculis di Giambonino da Cremona,  che con una raccolta di diverse  ricette arabe, di carattere gastronomico e dietetico, ricavate  da un monumentale trattato di gastronomia araba redatto da un medico vissuto a Bagdad e morto nel 1100. Qui si trova la prima descrizione di raviolo chiamato sambusaj il cui termine è riferito ad un contenitore di pasta a forma di triangolo farcito di carne macinata. Un successivo manoscritto di cucina araba di Al Baghdadi, redatto nel 1226, ci spiega che  sambusa  era lo scialle a triangolo in cui si avvolgevano le donne. È l’autore, Ibn Butlan, che ripropone alimenti  simili ai ravioli e li chiama calizon panis e raviolus.

 

Dunque con l’approdare degli arabi in Sicilia e Spagna il raviolo inizia ad affermarsi, verosimilmente rivestito di pasta. Un altro indizio ci viene dato da Salimbene da Parma, frate francescano e cronista, che nel suo Cronica riferisce che nell’anno 1284,  alla festa di Santa Chiara il 12 agosto, aveva mangiato per la prima volta in vita sua  i ravioli parmigiani, più piccoli di quelli che già conosceva, chiamati raviolen che il popolo  chiamava  anolen o anolini,  senza involucro di pasta (raviolus  sine crusta de pasta), cotti nel brodo in uso in Toscana e Emilia Romagna.

 

Questo attesta  che alla fine del Duecento il termine raviolo era conosciuto nell’Italia settentrionale sia con l’involucro di pasta che senza. I testi dei secoli successivi menzionano il raviolo nella  duplice veste: avvolto nella pasta o  senza (ravioli gnudi) o, come dice Giovio nel suo Epistularium: …ravioli con spoglia e senza spoglia. Nel 1551 nel Vocabolario di Giambullari, alla voce raviolo si legge: vivanda in piccoli pezzi fatti di cacio, uova, erbe et simili, mentre al termine tortello  la descrizione è: vivanda della stessa materia che la torta, ma in pezzi più piccoli. Torte e tortelli in questo momento storico sono l’evoluzione dei preziosi pasticci in crosta già presenti nelle mense medievali.

 

Sembra che tutto sia risolto ed invece questi riferimenti non ci aiutano molto. Il termine raviolo, fino al 1400, veniva utilizzato per identificare  diverse pietanze. Poteva essere un piatto dolce o  salato e poteva essere un involucro di pasta che racchiudeva un ripieno, oppure una specie di gnocco senza sfoglia. Il nome raviolo segue una serie di evoluzioni, dal XII al XVI secolo e, nelle diverse regioni italiane,  veniva chiamato in  maniera diversa: raffiolo, rafiolo, ravigiolo, ravanolo, raviolo.

 

Il Libro di cucina di un anonimo veneziano del Trecento riporta tre ricette: rafioli friti, rafioli commun de herbe vantazati e rafioli per altro modo e chiamasse licaproprii.

 

Nel 1300 nel Liber de Cocina di un anonimo la farcia del raviolo era fatta con  pancia e fegato di maiale, oppure coratella di capretto, il tutto tritato, amalgamato con cacio, uova, spezie e avvolto nel diaframma del maiale, fritti nello strutto e intinti nel miele. Boccaccio nel 1351 – terza novella dell’ottava giornata del Decamerone – racconta che Maso si burla di Calandrino facendogli credere che in Belinzone c’era una contrada chi si chiamava Bengodi, nella quale si legavano le vigne con la salsiccia, e  avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocendoli in brodo di capponi, e poi gittavan giù, e che più ne pigliava più se n’aveva.

 

Nel successivo secolo XV la ricetta del raviolo inizia ad assumere una così precisa connotazione da essere considerato una pietanza riservata solo all’aristocrazia. Uno dei più grandi gastronomi italiani, Massimo Alberini, nel libro Liguri a tavola scrive  che il raviolo è un piatto che si è evoluto partendo da una ricetta povera di pasta condita con olio e verdure, partendo dall’utilizzo degli avanzi. Maestro Martino da Como nel XV secolo indica le ricette precise di tortelli e ravioli. Nel periodo successivo le ricette assumono le caratteristiche tipiche della cucina rinascimentale dai sapori più marcati e speziati.

 

Bartolomeo Scappi nella sua opera edita nel 1570 riporta le ricette di tortelletti e annolini. Bartolomeo Stefani nel XVII secolo (L’arte di ben cucinare) li chiama agnolin: ..si piglierà una libra di brodo grasso, e si porterà nel detto brodo a bogliere per uno spazio di una Ave maria.  Vincenzo Agnoletti nel suo Manuale del cuoco e del pasticcere, stampato a Pesaro nel 1834, dà una precisa definizione del raviolo alla romana, con taglio a mezzaluna e ripieno di ricotta e spinaci. Introduce anche l’agnolotto piemontese, il primo gnocco cotto in brodo. L’agnolotto (nome da cui probabilmente deriva s’angeloto sardo), è difficile dire quando si sia  diffuso in Piemonte, anche se qualcuno dice che quel raviolo sia nato a Gavi, ed anche perché non se ne trova cenno nel testo anonimo Il cuoco Piemontese perfezionato a Parigi del 1766, al servizio dei Savoia.

 

Il raviolo nell’italiano medievale era chiamato anche calison (nome molto vicino al sardo culunzone) e ne rimane notizia ancora in Friuli dove viene ancora chiamato cjalsons. Il nome calison deriva sicuramente da quel calizon panis arabo e, per concludere questa prima indagine, potrebbe essere anche il nome d’origine delle  paste sarde ripiene. Il nome calison, di origine araba, era  riferito ad un  raviolo dal sapore dolce e perciò si potrebbe pensare che sia molto lontano da su culunzone sardo. Dico invece che fra le tipologie di ravioli sardi, tuttora esistenti, moltissimi sono  salati ma tanti dolci, conditi con lo zucchero o aromi, oppure dolcificati con il miele. Mi piace anche pensare che Federico II di Svevia, con il suo dominio siciliano, successivo a quello arabo, e abbia condizionato l’alimentazione sarda.

 

Non dimentichiamoci  il suo grande interesse per  la Sardegna, dove ha combinato un matrimonio, nel XIII secolo: tra il  figlio, Re Enzo di Sardegna, e Adelasia di Torres. Oggi i ravioli sardi, denominati con nomi antichi e fattezze moderne, sono il piatto delle occasioni di festa, giunti da noi forse successivamente al periodo  medievale, non smettendo di sorprendere e stupire con il loro sapore pieno e fragrante che caratterizza momenti di grande importanza.

 

Ecco la ricetta

 

CULURZONES o BUSCIACAS DE BENTU

 

Ingredienti: 300 g. di semola di grano duro, 100 g. di strutto, 100 dl. di saba, 300 g. di sangue di maiale fresco, 100 g. di uva passa,100 g. di mandorle tritate fini, 1 cucchiaino di cannella, 2 chiodi di garofano tritati, buccia grattugiata di un arancio, 1 lt di olio extravergine di oliva.

 

Procedimento

 

Per la pasta: Impastate la semola con lo strutto e un goccio di acqua tiepida salata. Lavorate a lungo l’impasto finché non diventa sodo ed elastico, quindi avvolgetelo con un telo di cucina e fatelo riposare.

 

Per il ripieno: In una ciotola mettete in sangue da condire con la farina di mandorle, saba, cannella, chiodi di garofano, uva passa fatta rinvenire in acqua fredda e buccia dell’arancio. Mescolate fino ad ottenere un impasto sodo, se no aggiungete un cucchiaio di semola. Formate con l’impasto tante piccole palle di pasta da ottenere, tirate con il matterello, dei dischi sottili di pasta di circa 10 cm. di diametro, Distribuite sui vari dischetti un cucchiaio di ripieno e chiudere a mezzaluna. Riscaldate in padella l’olio e appena raggiunta la temperatura friggete i dolcetti. Scolate appena dorati e serviteli tiepidi oppure freddi