– di Lucia Cossu –

 

Riprendiamo la nostra conversazione filosofica tra sentieri interrotti con Luca Vargiu, studioso di filosofia estetica e docente nell’Università degli Studi di Cagliari.

Questa lunga e intensa intervista, divisa in due parti per l’importanza e la varietà dei temi trattati, è una conversazione sull’estetica e sulla vita. Tra il serio e il faceto, come del resto si presenta la vita, con Luca Vargiu abbiamo affrontato temi importanti e di stringente attualità, con l’immancabile Kant a ricordarci quanto siano importanti i nostri giudizi. 

Una passeggiata estetica. Intervista a Luca Vargiu  -prima parte-

Riprendete questa passeggiata estetica creando la giusta atmosfera: accomodatevi su una comoda poltrona, luce calda, un gatto che ronfa beato sulla vostra pancia, del cioccolato, un buon bicchiere di vino e lasciatevi guidare nel mondo dell’estetica. Buona lettura!

 

Luca, si parla tanto di Pop philosophy, di cosa si tratta?

Pop philosophy: si usa questa espressione inglese perché questo filone è nato sostanzialmente negli Stati Uniti. Vuole essere pop non nel senso, senz’altro più ricco e interessante, in cui la intendeva Gilles Deleuze, cioè nel senso di una filosofia che, giovandosi dell’elettricità e dell’intensità della cultura pop, cessasse di essere una disciplina chiusa, settoriale, e divenisse anzi anti-professorale, potenzialmente anarchica e in grado di aprirsi a nuove dimensioni. Molto più semplicemente, invece, la pop philosophy contemporanea vuole mischiare la filosofia – se vuoi anche banalizzarla, trivializzarla, c’è sempre anche un po’ questo rischio – con la cultura di massa.

Questo genere – se così lo si può chiamare – aveva un buon successo 20-25 anni fa. Oggi si è un po’ spento, anche se, per esempio, a Marsiglia ogni anno continua a svolgersi in autunno un festival: la “Semaine de la pop philosophie”.

Alcuni titoli sono stati tradotti anche in italiano o sono stati scritti direttamente da autori italiani e riguardano fenomeni come il rock: i Led Zeppelin e la filosofia, i Metallica e la filosofia, i Kiss e la filosofia…, oppure le varie serie televisive e cinematografiche – James Bond, Harry Potter, Doctor Who, Jurassic Park, Matrix, Orange is the new Black, The Walking Dead, Dexter, Buffy, Twin Peaks – i cartoni animati e i fumetti – i Simpson, South Park, Peanuts, Peppa Pig – oppure ancora fenomeni di costume e della nostra società di massa, o anche sport: Facebook e la filosofia, l’iPod e la filosofia, il calcio e la filosofia.

Per molti è un po’ un divertissement, un gioco: provare a vedere cosa avrebbero da dire Nietzsche o Platone e Aristotele su Maradona, su Messi, su Bart Simpson o su Sting. Può essere visto anche in senso contrario, come un aggancio a temi filosofici a partire dall’esperienza quotidiana, per trovare motivi e problemi che sono stati approfonditi dai filosofi: in questo senso può avere uno scopo didattico e alcuni saggi sono davvero ben fatti. Nei casi migliori, possono essere letture piacevoli da cui si impara qualcosa. E i nomi di un certo rilievo non mancano: Noël Carroll, noto studioso statunitense di estetica, ha partecipato al volume sui Monty Python, Jeff Malpas, filosofo australiano che si occupa di Heidegger, di spazio e di paesaggio, ha partecipato al volume sugli U2. In Italia il filosofo della scienza Giulio Giorello, recentemente scomparso, si è occupato di fumetti, da Paperino a Tex.

 

Una novità tutta americana? Gli europei non hanno da dire nulla?

Nominavo adesso Giorello, ma anche il libro su Peppa Pig è stato scritto da un italiano, e anche diversi altri. In ogni caso, se è vero che le principali collane sono americane, è anche vero che ai vari volumi partecipano filosofi di tutto il mondo, dall’Asia al Sudamerica, all’Europa. A volerne tracciare la genealogia, poi, tutto sommato non si tratta di una novità. Già nel Settecento si parlava di certi filosofi tedeschi (Christian Garve e altri) come di “filosofi popolari”, perché i loro scritti erano caratterizzati da un taglio più divulgativo e meno profondo: nel parlare di “filosofi popolari” c’era anche spesso una connotazione negativa, quindi. In Italia, nello stesso secolo, Francesco Algarotti ha scritto Il Newtonianismo per le dame: al netto di tutte le questioni di genere, è vero che le dame tenevano i salotti culturali, ma venivano anche viste come dedite soltanto alle frivolezze e alle cose superficiali. Il libro era il tentativo di spiegare in modo semplice e mondano la filosofia di Newton: tra un trucco e un parrucco, tra un salotto e una toilette, cerchiamo di capire Newton. È una letteratura divulgativa nata per attrarre un popolo un pochino più vasto. Un pochino: certo non era per il popolo a cui dare brioches se mancava il pane.

 

Ti sei occupato anche di calcio. Anche il calcio rientra nell’ambito estetico?

Mi sono occupato di calcio quando ho avuto l’opportunità di collaborare al volume Soccer and Philosophy, edito all’interno di una collana specializzata proprio in pop philosophy. Era stato pubblicato in occasione dei mondiali del Sudafrica, che tutti si ricordano per almeno tre cose. La prima ha un’importanza anche storica, le altre due hanno un valore più cronachistico. La prima, di portata storica, è l’ultima apparizione in pubblico di Nelson Mandela. Le altre due, più aneddotiche, sono le vuvuzelas, con il loro suono assordante, e il polpo Paul, che faceva i pronostici e ci azzeccava in pieno. Dimenticavo: Shakira che canta Waka Waka dove la lasciamo?

Ma torniamo al libro. Il curatore, che tra l’altro è un ex calciatore e insegna filosofia negli Stati Uniti, si chiama Ted Richards e per l’occasione aveva messo su una squadra di studiosi di filosofia provenienti da tutto il mondo: un vero e proprio campionato mondiale anche da questo punto di vista. Io ho partecipato con un saggio intitolato Kant al Maracanã, nel quale ho provato a rapportare il problema del giudizio estetico alle situazioni che si possono verificare anzitutto dentro lo stadio, sia dal punto di vista dello spettatore che va lì a godersi il gioco, sia del tifoso che invece ci tiene che la sua squadra vinca, oppure dal punto di vista dello scommettitore, che vuole che vinca la squadra sulla quale ha puntato. Dopodiché mi sono spostato sul campo di gioco, per vedere come vivono la questione i giocatori, l’arbitro e i suoi collaboratori mentre stanno giocando. Infine, termino con alcune considerazioni sul dopo partita, relativamente a come si esercita il giudizio estetico quando si riguarda la partita o i suoi momenti salienti in TV o sul web. Poco tempo dopo, ho riproposto gli stessi argomenti in occasione di uno degli “aperitivi culturali” dell’associazione culturale Itzokor, di Cagliari, intitolando l’appuntamento Kant al Sant’Elia. Se ci pensi, tutto torna: Scopigno, l’allenatore del Cagliari dello scudetto, era soprannominato “il filosofo”.

 

Ti piace molto giocare con i paradossi.

Sì! Curo un blog didattico che avevo creato quando insegnavo a scuola – sino al 2010 ho insegnato storia e filosofia a San Gavino, sia alle ex magistrali che allo scientifico –, poi ho continuato a usarlo per gli studenti universitari.

Il blog si intitola Più formaggio più vermi… (https://luca1710.wordpress.com/). Il nome rimanda a un paradosso che in origine riguarda il formaggio con i buchi, ma siccome siamo in Sardegna, chi è che fa i buchi? I vermi! Anche il formaggio, ovviamente, mette in gioco il giudizio estetico: si va dal disgustoso al buonissimo. Coinvolge l’esperienza tattile, gustativa, olfattiva: su fragu de su casu marzu è ben noto!

Il paradosso gioca con il sillogismo aristotelico: più formaggio hai più vermi hai, ma se hai più vermi hai meno formaggio, quindi più formaggio hai meno formaggio hai. Ovviamente, la spiegazione c’è, ma qui non la rivelo!

Un altro paradosso con cui ho giocato quando insegnavo a scuola riguarda la creazione di un gruppo su Facebook, che esiste ancora. Intorno al 2008-2009, quando c’è stato, almeno da noi, il primo boom di iscrizioni a Facebook, giocando con un paradosso ben noto fin dall’antichità, avevo creato per i miei studenti il “Gruppo di quelli che non fanno parte di questo gruppo”. E allora chi è che fa parte del gruppo di chi non fa parte di quel gruppo? Perché se fai parte di quel gruppo, non ne fai parte, e allora ti devi cancellare. Ma, se ti cancelli, non fai parte del gruppo, e quindi ti devi iscrivere, e vai avanti così all’infinito… Una mia studentessa di allora – con cui, fra l’altro, sono sempre in contatto – ha commentato: “Non facendo parte del gruppo, mi sento in dovere di iscrivermi subito. Tuttavia, ora vi faccio parte ufficialmente… quindi teoricamente dovrei lasciarlo.  Ma, se lo lasciassi ora, non potrei commentare. Oh cavolo…”

 

Che ricordo hai della scuola, degli anni in cui insegnavi nelle scuole superiori?

Quello che più mi manca davvero è l’aspetto compartecipativo, di scambio costante giorno dopo giorno soprattutto con gli studenti. Sono stati anni bellissimi, davvero mi manca ancora tantissimo, perché è stata un’esperienza molto feconda e intensa dal punto di vista umano: provare a costruire qualcosa, sentirsi utile per qualcuno. Ho mantenuto molti contatti: ci sentiamo, condividiamo interessi comuni, ci incontriamo e ci vediamo, a volte collaboriamo…

 

Il punto di vista dei ragazzi ti fa crescere…

Sì, è proprio così, anche se sembra banale dirlo (ma il filosofo non deve evitare il banale, anzi, deve scandagliarlo). Lo scambio reciproco con gli studenti e con le studentesse è sempre molto formativo.

 

Un altro tema di cui ti occupi è l’Estetica del camminare. Cosa riguarda?

Tra i miei interessi attuali c’è anche, come ti dicevo prima, la tematica del paesaggio. Sto provando a vedere che senso abbia l’esperienza del camminare in relazione all’esperienza del paesaggio o comunque – come dire? – la portata estetica del camminare in qualsiasi contesto e situazione: in città, in riva al mare, in luoghi ameni o in luoghi degradati…

Anche qui si parte da lontano e si possono fare nomi importanti: Rousseau, Schiller, Nietzsche, Thoreau… Voglio ricordare un pensatore di fine Settecento, Karl Gottlob Schelle, autore di un volumetto sulla filosofia della passeggiata tradotto anche in italiano: era anche lui un esponente di quella “filosofia popolare” che abbiamo nominato prima parlando della filosofia pop: in questo libriccino si sente l’influenza dell’estetica kantiana, e del resto i due si conoscevano. In questi anni si sono occupati del camminare diversi filosofi e pensatori, artisti, sociologi. È un campo interdisciplinare. Del resto, chi studia estetica sa bene, come ci ha insegnato negli anni Sessanta il filosofo polacco Władysław Tatarkiewicz nella sua Storia dell’estetica, che nello studio e nella pratica di questa disciplina non ci si deve limitare ai filosofi, ma occorre rivolgersi a tutti quelli che a diverso titolo e in diverso modo si sono occupati di estetica, quindi gli artisti, i sociologi, gli antropologi, i critici, chiunque.

A proposito del camminare, per il momento sono in una fase ancora esplorativa. Sto realizzando una sorta di mappatura per rendermi conto delle diverse posizioni, distinguendo grossomodo due filoni: uno più legato alla fenomenologia del camminare, quindi, se vuoi, all’interpretazione; l’altro più legato a una visione critica, perché attraverso il camminare tu ti dovresti accorgere di una serie di elementi relativi a quello che ti circonda, e questo ti dovrebbe aiutare ad acquisire una coscienza critica.

Quindi, per esempio, tornando a quanto dicevamo prima su questioni come quelle relative alle scorie e alle pale eoliche – ma non dimentichiamoci il rischio di cementificazione sulle coste –, anche il camminare in quei posti ti fa rendere conto di una serie di questioni e ti fa crescere nel tuo giudizio. È possibile pensare e progettare camminate volte all’acquisizione di consapevolezza. È l’attività che porta avanti il gruppo Stalker creato da Francesco Careri, già da un po’ di anni, anzitutto a Roma. In Germania e dintorni troviamo Annemarie e Lucius Burckhardt, moglie e marito, entrambi scomparsi, che si sono mossi tra sociologia, scienza della cultura e arte della performance. Tutte queste persone hanno portato avanti uno sguardo critico attraverso l’uso del passeggiare. I Burckhardt hanno parlato di Promenadologie, una scienza del passeggiare.

Un altro esempio ci è dato dal celebre psicologo Kurt Lewin, che conia il termine “odologia”, usato poi anche da Sartre e da altri. Da giovane è stato soldato nella Prima guerra mondiale e, riflettendo su questa esperienza, ha scritto un breve saggio intitolato Paesaggio di guerra, che, sebbene non parlasse ancora di odologia, tuttavia contiene in nuce i termini principali della questione. Qui Lewin si chiedeva che cosa cambiasse nell’esperienza dello spazio il fatto di trovarsi in pace o in guerra, per esempio l’esperienza di chi si trova lungo la linea del fronte, in trincea o durante un assalto, sapendo che ti possono arrivare le bombe addosso, o di chi invece sa che niente accade perché si è in pace.

 

Il tuo corso monografico di quest’anno all’università trattava di Iconologia, iconica, iconoclash: teorie contemporanee dell’immagine. Ha riguardato anche le statue abbattute i mesi scorsi. Ci spieghi di cosa si tratta?

Ho proposto un corso monografico sulle teorie contemporanee dell’immagine. L’immagine in questi ultimi anni è divenuto un tema centrale in molte discipline: si parla di un iconic turn o di una svolta iconica, cioè di una svolta verso l’immagine. Chiaramente l’estetica non può non fare la sua parte. È stato quasi un caso che questo corso affrontasse anche questioni di stretta attualità, se pensiamo a quello che è successo i mesi scorsi, con l’abbattimento o lo sfregio di varie statue in diversi paesi di personaggi ritenuti schiavisti e razzisti, e i relativi dibattiti in merito. Il mio compito e anche la mia posizione deontologica non è stata quella di prendere posizione pro o contro, ma di fornire qualche elemento in più per poter comprendere quello che stava succedendo e che, a diverse ondate, è capitato molto spesso nella storia.

Uno dei casi che gli autori che abbiamo letto hanno preso in considerazione – sono quasi tutti saggi scritti tra il 2000 e il 2010 – riguarda Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani in Afghanistan; un altro riguarda l’abbattimento della statua di Saddam Hussein alla caduta del suo regime. Ma poco prima, con la dissoluzione dell’URSS e il crollo del muro di Berlino, abbiamo assistito, in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico, all’abbattimento di tutte, o quasi tutte, le statue dei vari uomini politici russi e locali. Goodbye Lenin ce lo ricordiamo un po’ tutti: la famosa immagine icastica nella statua di Lenin che viene portata via in elicottero. Uno dei luoghi da vedere a questo riguardo è il parchetto adiacente al museo estone di storia, poco fuori Tallinn, in cui sono state collocate tutte le statue di leader dell’epoca sovietica prima dislocate nelle varie vie e piazze della città. Fa un certo effetto vedere tante effigi di Lenin, Stalin e dei politici locali tutte insieme e ammassate in uno spazio ristretto.

In genere, nel dibattito sviluppatosi nei mesi scorsi sui grandi giornali, sui settimanali, sui social sono stati soprattutto gli storici a intervenire, mettendo in luce il significato storico o del gesto iconoclastico o della statua o di entrambi e, volta per volta, prendendo posizione in una direzione o nell’altra. Il monumento, comunque, è sempre un oggetto complesso e non un semplice documento storico, per cui coinvolge più saperi disciplinari e più punti di vista che si richiamano ai diversi saperi. Ragionare sui monumenti anche in termini di immagine, di arte, di simbolo, significa richiamare anche le teorie dell’immagine o gli studi di cultura visuale e anche l’estetica. È importante dare un contributo: tanto nel dibattito, quanto a livello didattico, è sempre importante sottolineare che tra le voci in capitolo c’è anche quella dell’estetica.

 

Mi piace molto questo approccio dei punti a favore o punti contro, ci puoi dire quali sono?

A mio avviso, è preferibile non fare generalizzazioni, ma esaminare volta per volta il caso specifico. Anche sul piano storico e politico, del resto, casi come la statua di Montanelli a Milano, la statua di Carlo Felice a Cagliari o quella di Hume a Edimburgo richiedono considerazioni diverse. È vero che da un punto di vista filosofico possiamo individuare questioni generali, però poi queste vanno declinate nelle diverse situazioni. Sul piano dell’oggetto, per esempio, possiamo chiederci che cosa intendiamo per monumento, quali implicazioni ha questo concetto: c’è il punto di vista retrospettivo della memoria, della commemorazione di una persona importante, ma c’è anche il punto di vista prospettivo, cioè rivolto al futuro, perché questa persona importante deve fungere da esempio per le prossime generazioni, da monito (“monumento” viene da “monere”). Nel momento in cui tu erigi un memoriale, in senso retrospettivo e prospettivo, si intende anche offrire un simbolo in cui una determinata comunità può riconoscersi e coagularsi, sia che questa comunità sia già effettivamente esistente, sia che la si voglia creare o cementare proprio anche attraverso il monumento. Poi magari si scopre che quella persona celebrata era un disgraziato o quantomeno un personaggio controverso, e allora è ancora il “sentire comune” che decide di eliminare la statua e può decidere di buttarla giù: è il gesto iconoclasta, in questo caso, a essere simbolico di una comunità. Nelle riflessioni che si fanno, si deve anche tener conto, quindi, del possibile cambio di considerazione che quella statua gode all’interno della società di riferimento.

 

E se considerassimo la statua come documento o opera d’arte?

Certo, nello stesso tempo, un monumento è anche un documento, perché con l’erezione di una statua viene documentato che in un certo momento una certa persona o un certo avvenimento hanno avuto così tanta importanza che si è deciso di ricordarli in questo modo. Anche di chi abbatte statue e distrugge immagini può essere fatta una statua: a Neuchâtel c’è il monumento a un teologo iconoclasta dell’epoca della Riforma protestante, Guillaume Faurel.

La statua, inoltre, può essere o non può essere un’opera d’arte e anche questa è una questione su cui riflettere, perché il concetto di opera d’arte ha sempre una connotazione valutativa, implica un giudizio di valore. Il discorso non si esaurisce certo con queste considerazioni e sarebbe davvero meritevole di uno sviluppo polifonico e multidisciplinare. Io stesso ho bisogno di pensarci in maniera più approfondita… Per esempio, uno degli autori che abbiamo trattato, Hans Belting, sostiene che, siccome il monumento è un genere d’immagine anacronistico, legato al passato, sarebbe anacronistico anche il gesto di abbatterlo. C’è del vero in questo: lo sapeva bene Nivola, che a Nuoro, in piazza Satta, ha realizzato un monumento del tutto anti-monumentale. E però, non è l’immagine come tale a essere anacronistica in un senso ben più ricco, come lo stesso Belting, del resto, sa bene? E allora, questo che cosa comporta?

In ogni caso, come ti ho detto, nel corso di quest’anno tali questioni sono state affrontate solo di passaggio, all’interno di una riflessione più ampia e più variegata sull’immagine. Che cosa intendiamo quando parliamo di immagine? Quale rapporto c’è tra l’immagine e il medium in cui si presenta (il quadro, una parete, lo schermo di un computer, la statua…)? Quale rapporto c’è tra le immagini materiali e le immagini mentali? Quale relazione si instaura tra la dimensione visuale e il linguaggio verbale con cui descriviamo e spieghiamo le immagini?

 

Cosa significa iconoclash?

L’iconoclash, lo scontro iconico, avviene quando in certe situazioni tu non sai se quell’immagine la stai salvando o la stai invece distruggendo. Ci sono molti casi in cui la questione è ambigua. Il primo caso preso in esame da Bruno Latour, il sociologo ed epistemologo che ha creato questa parola, è il caso dell’incendio della cappella della Sindone a Torino, avvenuto nel 1997. Sono arrivati i vigili del fuoco e hanno preso a martellate la teca dove è custodita la Sindone. Perché l’hanno fatto? Per salvare la Sindone, ma, in realtà se tu non sai che cosa sta succedendo, vedi questi col martello e “oddio la Sindone”, invece la stanno salvando.

Un altro esempio è il caso del restauro: in molti casi è palese, come quando il restauro è mal fatto, come è accaduto in Spagna a quell’Ecce Homo che è stato dato a una persona incompetente e così abbiamo perso l’opera. Poi quell’immagine è divenuta un’icona pop, quindi le cose si sono ulteriormente complicate. Così come sono complicate in altri casi, come quando si espongono nei musei manufatti nati per essere distrutti dopo qualche giorno, come i malanggan della Nuova Irlanda di cui parla ancora Latour.

Questo è stato l’ultimo corso che ho fatto e ben venga fare un corso che ha la sua importanza nella attualità. È sempre importante anche prendere posizione su che cosa ci sta succedendo intorno, chiaramente a ragion veduta.

 

Oltre il valore estetico della passeggiata c’è qualche altro studio che stai portando avanti?

Da poco sono uscite due volumi un po’ diversi: un libro curato con lo storico dell’arte Alberto Virdis, intitolato Esperienze e interpretazioni della morte tra Medioevo e Rinascimento, che raccoglie vari contributi di storici dell’arte, studiosi di estetica e dintorni, nello spirito di uno scambio reciproco su temi che stanno a cuore a tutti noi. L’altro è un volumetto intitolato Insularità. Una metafora per l’opera d’arte. Quindi anch’io continuo a occuparmi di estetica come filosofia dell’arte, è solo che sono ben consapevole, così come lo siamo tutti, che l’estetica non si esaurisce qui. In quest’ultimo libro analizzo da un punto di vista storico-ricostruttivo una metafora, quella dell’isola, usata da diversi filosofi e storici dell’arte durante il ventesimo secolo per caratterizzare l’opera d’arte: le particolarità di un’isola – l’essere separata dalle altre terre e “incorniciata” dal mare, l’avere contorni ben definiti, il distinguersi per particolari elementi autoctoni come flora e fauna – sono state adattate all’opera d’arte per rivendicarne l’autosufficienza semantica e la conseguente esigenza di essere compresa e interpretata secondo principi a essa immanenti.

 

La filosofia anche contro la velocità dei nostri tempi

Alla questione si presta bene il tema del camminare. Camminare – l’ha detto bene l’antropologo David le Breton – implica proprio la lentezza: nel contesto della realtà contemporanea, dedita alla fretta, ai ritmi frenetici, è una forma di resistenza. Più in generale: prendersela con calma, lentamente, riscoprire ritmi più blandi e anche più piacevoli, contro la velocità, contro la fretta, contro questa fretta a cui siamo costretti in tutte le attività che facciamo, ha una forte componente estetica, oltre che politica. Il significato della pausa, il dare respiro alle cose, il significato del ritmo lento, del conoscere il tuo ritmo e praticarlo… Occorrerebbe tenerne conto, perché i ritmi non sono uguali per nessuno di noi, eppure vengono standardizzati in tutto ciò che facciamo, non solo nelle catene di montaggio, come dal fordismo in poi sappiamo, ma in ogni nostra attività: tutte le nostre giornate sono regolamentate da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto, anzi, è regolamentata anche l’ora in cui ci svegliamo. Invece sarebbe meglio che ognuno si potesse svegliare all’ora dei suoi bioritmi.

Ecco perché da un lato ha senso una somaestetica, ed ecco perché, dall’altro lato, tornando a ciò di cui si occupa l’estetica quotidiana, attribuiamo senso alle piccole auto-coccole quotidiane, come dicevamo prima: vestire bene, perché lo facciamo? Perché vogliamo stare bene. Ci prepariamo qualcosa di buono: una tisana, la colazione, il pranzo, lo spuntino di mezzanotte, perché fa parte del voler cercare il piacevole, il bello, il benessere, inteso in senso vasto.

 

 

La filosofia ha ancora tanto da dirci. È importante studiare filosofia, anche iscriversi in filosofia.

Beh sì. Non so se ti ricordi, nei primi anni Novanta si pensava di introdurre la filosofia in tutte le scuole superiori, ne aveva parlato Enrico Berti in una conferenza al Liceo Dettori di Cagliari. È un’idea apprezzabile, a conferma che la filosofia in genere davvero sarebbe utile in tutti i corsi, in tutte le scuole. Ma ancora, ti ricorderai che, più o meno negli stessi anni o leggermente dopo, ci fu il boom della consulenza filosofica, che, al di là del fenomeno di moda, intendeva anch’essa riprendere un’idea di filosofia come “arte di vivere”, e quindi come pratica capace di riguardare la vita di ognuno. In parte legato a essa, e in parte no, ci sono state, e continuano a esserci, tutte le esperienze di filosofia per bambini o coi bambini, a volte davvero interessanti…

In ogni caso, tornando alla formazione, sarebbe forse già un buon risultato vedere la filosofia disseminata nei vari corsi di laurea universitari, ognuno secondo la propria peculiarità. Ci sono già corsi di etica e bioetica in medicina, corsi di epistemologia nelle facoltà scientifiche… Per rimanere all’estetica, non sarebbe male che tutti coloro che all’università sono iscritti nei corsi umanistici in senso lato, considerando anche architettura (ma c’è anche chi ha pensato a un’estetica del diritto, per esempio), prevedessero, anche soltanto tra gli esami opzionali, estetica.

Se, per tornare a Tatarkiewicz, chi studia estetica deve tener conto di tutti coloro che si sono occupati di estetica, da qualsiasi ambito provengano, ciò vuol dire che il pluralismo e la polifonia sono già insiti nella materia. E allora, che senso ha che le cose ce le raccontiamo tra di noi?!

 

Non raccontarci le cose tra noi e portare l’estetica fuori delle aule universitarie è stata un po’ la logica di questa intervista. Ringrazio Luca Vargiu per la disponibilità e per aver affrontato tutti i temi con grande umanità e generosità.

Sei siete curiosi e volete approfondire le tematiche estetiche, cliccate sui titoli dei libri e troverete tutte le informazioni sui testi appena pubblicati da Luca Vargiu:

 

Esperienze e interpretazioni della morte tra Medioevo e Rinascimento.

http://www.edizioniae.it/catalogo/esperienze-e-interpretazioni-della-morte-tra-medioevo-e-rinascimento/

 

Insularità. Una metafora per l’opera d’arte

http://mimesisedizioni.it/libri/filosofia/il-caffe-dei-filosofi/insularita.html