di Lucia Cossu
L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale, con i massacri, i danni economici e sociali che ha provocato nei paesi occupati, Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia e con il razzismo generato. Ci si è occupati e si è condannato il razzismo degli altri; in fondo, gli italiani “sono brava gente”. È stato più semplice derubricare il colonialismo a una delle tante atrocità del fascismo, o a un fenomeno marginale nella storia d’Italia. Eppure, la storia ci dice tutt’altro. Per dipanare questo tema complesso, trascurato e carico di pregiudizi, ho intervistato Valeria Deplano, che insegna Storia dell’Europa contemporanea e Storia del mondo contemporaneo presso l’Università degli Studi di Cagliari e si occupa di storia del colonialismo e della decolonizzazione in Italia e in Europa; storia delle migrazioni in età contemporanea e storia del fascismo. La ricostruzione che vien fuori restituisce la dovuta importanza e la giusta dimensione storica al colonialismo italiano.
85 anni fa, il 5 maggio del 1936, le truppe italiane entrarono ad Addis Abeba, perché questa è una data dimenticata e perché, invece, sarebbe importante ricordarla?
Il 5 maggio segna una svolta nella storia d’Italia: con l’ingresso dell’esercito italiano nella capitale dell’Etiopia Mussolini poté dire agli italiani (fatti radunare il 9 di quello stesso mese in piazza Venezia per ascoltare uno dei suoi più famosi discorsi) che il fascismo aveva dato alla nazione un impero. Nell’ottica di Mussolini significava affermare innanzitutto che il fascismo era riuscito laddove avevano fallito i governi liberali (che per primi avevano provato a sottomettere l’Etiopia, venendo clamorosamente sconfitti a Adua nel 1896), e rivendicare così di aver reso l’Italia forte e determinata. Inoltre, significava dimostrare che il fascismo, realtà politica giovane poiché nata nel 1919, era in realtà l’erede dell’antica Roma.
A far passare questo discorso contribuirono, ad esempio, le mappe murarie installate in via dell’Impero (l’odierna via dei Fori imperiali) che illustravano l’espansione dell’impero romano in Africa, e la mettevano in diretta connessione con quella del fascismo, rappresentata nell’ultima mappa. Ma ancora più importante, tra i motivi che rendono il 5 e il 9 maggio due date simbolicamente pesanti, è il fatto che dopo l’occupazione dell’Etiopia iniziò una nuova fase non solo del colonialismo italiano, ma proprio della storia d’Italia: dentro e in funzione della dimensione imperiale il regime provò a realizzare la nuova società fascista, di cui i coloni erano simbolo, e in cui il razzismo biologico era un asse portante.
C’è da dire che il 5 maggio è però una data doppiamente simbolica: se nel 1936 segnò l’ingresso delle truppe italiane ad Addis Abeba, nel 1941 vide il rientro di Haile Selassie, l’imperatore d’Etiopia che era dovuto andare in esilio in Inghilterra, nella sua capitale e il reinsediamento sul suo trono. Il progetto di Mussolini durò cinque anni esatti.
Quando inizia il colonialismo italiano? Possiamo trovare una connessione tra l’unità d’Italia e il colonialismo?
Il primo interesse del giovane stato italiano per l’Africa inizia pochi anni dopo l’unità, quando il governo diede mandato a una compagnia commerciale genovese di acquisire un avamposto sul mar Rosso, ad Assab. Era il 1869. Nei decenni successivi, in particolare negli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, lo Stato italiano iniziò una politica di espansione militare nel Corno d’Africa, che lo portò alla creazione e occupazione delle prime due colonie, l’Eritrea (che come entità territoriale e statuale non esisteva fino ad allora, è proprio una creazione del colonialismo italiano) e la Somalia, che fu prima protettorato e poi divenne una vera e propria colonia nel 1902. Invece, come detto, il tentativo di sottomettere l’impero etiopico fallì a causa di una sconfitta militare che ancora oggi è ricordata in molti paesi africani come simbolo della possibilità di avere la meglio sulle ingerenze europee.
Questo è un periodo cruciale per la formazione e il consolidamento del sentimento di appartenenza al nuovo stato italiano, e le guerre coloniali, anche quelle perse come accadde a Dogali nel 1887, vengono utilizzate per celebrare la dedizione e il coraggio di soldati che sono presentati come simbolo della nuova nazione. Il colonialismo inoltre, basandosi sull’idea del diritto degli europei/bianchi di sottomettere gli africani/neri in virtù di una presunta, naturale superiorità dei primi sui secondi, fu utilizzato anche per insegnare agli italiani ad auto-identificarsi in un modello specifico, fenotipico e morale: quindi a vedersi come bianchi, civilizzati, superiori a chi stava dall’altra parte del Mediterraneo. Consiglio a questo proposito gli studi di Gianluca Gabrielli sul ruolo che questi modelli ebbero nell’educazione dei bambini italiani fin dal XIX secolo.
Passando al Novecento, un ulteriore legame tra colonialismo e storia dell’Italia prefascista si ha con la guerra di Libia, che iniziò nel 1911, cinquantesimo anniversario dell’Unità, e fu utilizzata per celebrare lo Stato italiano come moderno, e pienamente inserito ormai tra i paesi che contavano nello scenario internazionale.
Come viene fatto entrare il colonialismo nell’immaginario italiano? Gli italiani vengono costruiti anche con il colonialismo?
A parte il ruolo della scuola, cui si è fatto cenno prima, che vide l’espansionismo celebrato nei programmi di geografia, storia e italiano, il colonialismo fece ben presto ingresso nel cosiddetto discordo pubblico italiano: ebbe un grande rilievo giornalistico – celebri sono le copertine illustrate della diffusissima “Domenica del Corriere”, dedicate alla presenza italiana in Africa, entrò nel tempo libero dei bambini attraverso giochi e fumetti, dopo la guerra di Libia entrò nella toponomastica di moltissime città, e nella onomastica, cioè nei nomi che venivano dati a bambine e bambini.
Col fascismo ci fu un ulteriore impulso in questo senso, dalla fine degli anni venti si intensificò la propaganda culturale coloniale che includeva mostre, concorsi letterari e radiofonici a tema, viaggi verso le colonie, l’impiego dei mezzi cinematografici, la musica. Il colonialismo, che prima era stato utile per veicolare idee utili per alimentare il sentimento di appartenenza nazionale, col ventennio divenne fondamentale per veicolare alcune dei più importanti valori fascisti, a partire dalla virtù guerriera e dalla forza fisica.
Perché il colonialismo viene affiancato alla modernità?
Questo è un tema centrale che, ancora una volta, attraversa sia il periodo liberale che quello fascista: la premessa è che la modernità, intesa non in senso di superamento delle tradizioni e delle abitudini sociali, ma come capacità di possedere e utilizzare i prodotti delle più aggiornate tecnologie, nella prima metà del Novecento è una caratteristica su cui l’Europa tutta basa la propria autorappresentazione come culla della civiltà più avanzata. Tale autorappresentazione è tanto più centrale e utile nel momento in cui i paesi europei si lanciano nella spartizione dell’Africa: si occupano i territori altrui e se ne sottomettono le popolazioni in virtù di un diritto naturale dato dalla propria capacità di produrre e utilizzare tecnologie cui gli africani non hanno accesso per una presunta, altrettanto naturale, inferiorità che veniva continuamente ribadita e affermata.
Nella versione che ora definiremo più “buonista” di questo discorso, la superiorità tecnologica dei colonizzatori viene presentata come occasione per il miglioramento della vita dei colonizzati: è quello che Kipling definiva “il fardello dell’uomo bianco”, obbligato dalle circostanze a farsi carico del benessere delle popolazioni africane e asiatiche. La modernità è quindi un asse portante del discorso finalizzato a legittimare il colonialismo. Ma lo stesso concetto aveva altre due implicazioni “coloniali”: quello, concreto e realista, per cui la produzione industriale che stava alla base dell’investimento tecnologico aveva bisogno di materie prime, che solo un sistema imperialista di spartizione del mondo in funzione dell’Europa poteva garantire. L’altro, più propagandistico, che vedeva nelle colonie un terreno perfetto per fare mostra di tale modernità in una chiave ancora una volta di supporto del sentimento di appartenenza nazionale: le guerre coloniali consentivano l’uso e lo sfoggio delle nuove tecnologie (ad esempio per l’Italia la guerra di Libia fu la prima occasione per usare l’aviazione, sebbene il suo utilizzo non fu determinante per l’esito del conflitto). Ma anche la fase post-bellica, che coincideva con una aumentata mobilità di persone e beni, con la costruzione di infrastrutture e insediamenti urbani, dava occasione per usare e mostrare tecnologie e mezzi di trasporto moderni, capaci di “domare” gli impervi territori africani. Non a caso la Fiat negli anni Trenta usò lo scenario coloniale per promuovere alcuni suoi modelli.
Come viene utilizzato il colonialismo dal fascismo? Come cambia il colonialismo in seguito della guerra di Etiopia?
Quando Mussolini sale al potere eredita non solo il possesso di Libia, Eritrea e Somalia, ma anche un pensiero razzista sotteso ai progetti di occupazione, e attorno al quale erano già strutturate le società delle colonie. Eredita anche dei progetti che vedono nei possedimenti africani una “valvola di sfogo” per gli emigranti, che invece che andare all’estero ed essere trattati da stranieri avrebbero potuto restare in una situazione di privilegio e tutela spostandosi in territori controllati dallo Stato italiano. Tutto questo viene sviluppato per le esigenze del regime negli anni Venti e nei primi anni Trenta, ma l’Etiopia segna un salto di qualità. Il Corno d’Africa, ma anche la Libia, sono chiamati dal fascismo a diventare il crogiuolo della nuova società fascista: è a questo punto che il numero degli italiani aumenta notevolmente in quei luoghi, anche se non raggiungerà mai le cifre sbandierate dal regime. Per la prima volta arrivano in misura consistente anche le donne italiane, segno proprio del fatto che si pensa alla creazione di una società stabile di italiani d’Africa.
L’arrivo delle donne è legato a doppio filo, inoltre, con una nuova concezione della stessa idea di italianità, che ora passa per il sangue: stabilizzare le famiglie serve a evitare che gli uomini italiani instaurino relazioni sessuali e affettive con le donne africane. Proprio il discorso ufficiale attorno al rapporto con le donne africane può essere preso come cartina di tornasole del cambiamento successivo alla proclamazione dell’impero: prima le donne nere erano considerate un’attrattiva per gli uomini italiani mandati in colonia. Venivano rappresentate sempre svestite, a sottolinearne la presunta disponibilità, ma anche l’animalità – quindi la distanza dall’umanità, in quanto nere – prede del colonizzatore italiano che era legittimato ad appropriarsene. Se nella pratica gli uomini italiani continueranno ad agire come prima, dopo la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero la propaganda di regime si impegna a sminare il discorso precedente, descrivendo le donne africane come sporche e ributtanti, nonché pericolose per la conservazione della “razza” italiana. È il segno, questo, del passaggio da una concezione culturale del razzismo ad una concezione biologica, legata al sangue.
Spesso le leggi razziali vengono addebitate all’amicizia tra Mussolini e Hitler; in realtà, furono pensate e scritte in seguito all’occupazione italiana dell’Etiopia.
Le prime leggi razziali vengono promulgate nel 1937, nel contesto appena descritto, quindi prima delle leggi antisemite del 1938. Dopo una legge che puniva quegli italiani che avessero messo in pericolo il prestigio della razza, arrivò una legge che proibiva il madamato, la pratica con cui fin dall’Ottocento gli uomini italiani in colonia stabilivano un rapporto di “concubinaggio” temporaneo con donne africane, che fungevano anche come loro domestiche. Dopo l’occupazione dell’Etiopia un contesto in cui i rapporti sessuali “interrazziali” erano considerati dannosi, tale pratica fu proibita. Nel 1940 a tali provvedimenti se ne aggiunse un ultimo, quello sul cosiddetto “meticciato”: i figli nati da una relazione tra un uomo italiano e una donna africana non ereditavano la cittadinanza del padre, neanche se questo avesse voluto riconoscerli. Era e sarebbe rimasta la prima volta, nella storia d’Italia, che la cittadinanza non passava per il sangue del padre. Avere sangue “nero” nelle vene era condizione sufficiente per non poter essere inclusi all’interno del corpo della nazione.
Tutto andava nella direzione di stabilire una separazione netta tra italiani/bianchi e africani/neri: compresi i piani regolatori, che negli stessi anni miravano a creare zone delle città non accessibili alla popolazione locale, instaurando quindi una situazione di apartheid.
Quali furono i danni provocati subito e quali quelli a lungo termine?
Il colonialismo italiano innanzitutto ha provocato danni alle persone che ne subirono le manifestazioni più immediatamente sanguinose: le persone che fin dal XIX secolo furono internate in campi di detenzione in cui non erano rispettate neanche le minime condizioni igieniche, le persone che vennero deportate e internate in Italia, le persone costrette a marce forzate nel deserto e chiuse in campi di concentramento, le persone vittime di esecuzioni sommarie e spesso pubbliche, le persone -militari e civili- uccise dalle armi non convenzionali usate nella guerra d’Etiopia, le vittime degli incendi e dei saccheggi, le persone di Addis Abeba assassinate nel raid ordinato dal viceré Graziani, che fu una vera e propria caccia all’etiopico, le migliaia di persone – stavolta perlopiù monaci – massacrate a Debre Libanos e tutte le altre uccise in operazioni con cui i comandi militari italiani provavano a reprimere una resistenza capillare che durò in Libia sino al 1931 e in Etiopia sino all’arrivo degli inglesi.
I danni furono anche sociali, le popolazioni nomadi furono costrette ad una sedentarizzazione funzionale ai progetti del colonizzatore; i terreni furono espropriati e trasformati, ancora una volta per assecondare un progetto imposto dagli italiani in funzione di una società coloniale che strutturalmente metteva al primo posto i colonizzatori. Tutto questo, se ebbe l’impatto maggiore nel momento in cui si verificò, trasformò chiaramente le società dei colonizzati anche per i decenni a venire. Così come i colonizzati pagarono ciò che non fu fatto: ad esempio le colonie italiane erano quelle in cui il tasso di istruzione delle popolazioni locali era più basso, al momento del raggiungimento dell’indipendenza.
Nell’Italia repubblicana quale è la narrazione ufficiale sul colonialismo?
Il colonialismo italiano finisce, sul terreno, durante la seconda guerra mondiale, quando le colonie del Corno d’Africa e la Libia vengono occupate dagli inglesi, che ne assumono temporaneamente il controllo. Il trattato di pace del 1947 sancirà la rinuncia dell’Italia ai possedimenti, ma la definizione del loro destino viene lasciata all’ONU. I primi governi italiani post-fascisti proveranno a chiedere che l’Italia mantenga un ruolo nei possedimenti da lei stessa occupati in età liberale, con l’esclusione dunque dell’Etiopia. Già questa distinzione diceva due cose: da una parte che si faceva una differenza tra il colonialismo fascista, considerato quello condannabile, come da condannare era il regime che lo esprimeva; dall’altra che non esisteva un giudizio negativo – come d’altronde non esisteva negli altri paesi europei – del colonialismo in sé.
È in questo periodo che inizia a prendere forma una narrazione del colonialismo basata su alcuni punti di forza che, nonostante non siano supportati dalla ricerca storica, permangono fino ad oggi. Il primo è che appunto il colonialismo coincida col fascismo, e che sia una sua responsabilità: una interpretazione che lascia nell’ombra le profonde connessioni con la storia e la formazione della nazione stessa. Il secondo, che si nutriva di un immaginario elaborato dal fascismo stesso, affermava che il colonialismo italiano era diverso dagli altri, innocuo, perché fatto da lavoratori che in Africa avevano badato solo al proprio sostentamento di proletari, e avevano contribuito al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali attraverso opere pubbliche e agricole.
Questa narrazione, fondata sul fatto che effettivamente la metà (ma non certo tutti) dei coloni italiani fossero operai e contadini che andarono in Africa con il mito di una vita migliore, tralasciava – tralascia spesso ancora – non solo il contesto di volenze e repressione pianificata che consentì allo Stato italiano di poter inviare in Africa in propri cittadini (quindi i campi di concentramento, le esecuzioni sommarie, gli espropri), ma anche il fatto che le infrastrutture che gli italiani costruirono erano finalizzate alla realizzazione della società coloniale stessa, in cui erano gli interessi degli italiani a contare e non quelli delle popolazioni locali. Questa prospettiva è esplicita nella stampa degli anni Venti e Trenta, ma scompare completamente a partire dagli anni Quaranta per lasciare spazio all’ormai celebre “mito del buon italiano”.
Che cosa resta del colonialismo?
Resta tanto, e su molteplici livelli. Quello su cui si dibatte maggiormente in questi ultimi mesi è anni sono i lasciti materiali nelle città e paesi di tutta Italia: una toponomastica che ricorda luoghi, battaglie, generali che si sono visti dedicare una via, una piazza un edificio in virtù del ruolo ricoperto nella occupazione italiana di territori africani e nella sottomissione delle loro popolazioni. I loro nomi spesso non accendono nessuna lampadina nella mente di chi li usa nella propria quotidianità, ma sono portatori di storie violente e dolorose per chi era dalla parte colonizzata: il caso più noto è quello della via dell’Amba Aradam, a Roma, dove si sarebbe dovuta aprire una omonima fermata della metropolitana. Poiché l’Amba Aradam è un nome di un altopiano montuoso dell’Etiopia in cui si combatté nel 1936 una sanguinosissima battaglia che vide da parte degli italiani un massiccio uso di armi chimiche (teoricamente vietate dalla convenzione di Ginevra) che straziarono e uccisero barbaramente 20mila etiopici, attorno alla decisione di dedicare oltre alla via anche la stazione si è creato un movimento, che ha ottenuto l’intitolazione della futura fermata della metro C a Giorgio Marincola, italosomalo che combatté e fu ucciso nella resistenza italiana. Ma l’Amba Aradam racconta come il colonialismo sia presente anche nell’inconscio italiano in altre forme: Ambaradam è ormai una parola comune che si usa per definire una situazione particolarmente caotica, e ben poche persone sanno che fa riferimento ad una carneficina coloniale.
Quella dell’inconscio è una dimensione fondamentale per comprendere i lasciti del colonialismo: a me ad esempio è capitato di studiare i meccanismi di concessione della cittadinanza ai primi migranti libici, eritrei e somali che arrivarono in Italia nel dopoguerra, e i criteri di -non concessione – seguivano un’idea di appartenenza nazionale elaborata nel periodo precedente. Allo stesso modo, in parte l’idea che essere neri significhi non essere italiani, ancora radicata ed esplicitata ai nostri giorni, affonda le radici nella sovrapposizione di fenotipo e nazionalità che il colonialismo ha contribuito quantomeno a rafforzare e diffondere. Su questi temi consiglio la lettura di “Timira”, romanzo di Antar Mohamed e Wu Ming 2.
Perché in Italia si parla sempre poco di colonialismo?
Da una parte perché nel tempo si è consolidata l’idea che sia una parantesi della storia nazionale, limitata ad un periodo e soprattutto scollegata con gli eventi attorno cui si snodano le più importanti vicende italiane. Una storia di secondaria importanza, dunque da tralasciare. Dall’altra perché invece, nel momento in cui si decide di parlare di colonialismo con tutte le sue implicazioni, le sue connessioni con la storia nazionale, la sua violenza strutturale e il suo razzismo pervasivo, si deve mettere in discussione quel mito fondativo dell’Italia repubblicana che tracciava un confine netto tra buoni e cattivi, e collocava la nazione italiana nella prima categoria.
C’è da dire però che, pur con tante resistenze, passi indietro che seguono passi avanti, strenue negazioni, perpetuazione di luoghi comuni anche da soggetti istituzionali, ora di colonialismo si parla sempre di più, e tutto sommato anche con più cognizione di causa.