di Lucia Cossu

 

Una coltre di nuvole accoglie il nostro arrivo sull’Isola. Le città mediterranee nascono con il sole. Le ha tirate su il maestrale. Gli alberi piegati dal vento, la vegetazione che veste i luoghi e li profuma. Il blu del mare e del cielo hanno scelto intonaci e tinture, le strade e i passaggi, la lingua. E le genti che si sono succedute: braccia forti e cuori liberi. Il grigio che oggi occupa l’orizzonte non rende onore ai palazzi, alle vedute: il vento soffia. È una storia di mare e di genti di mare: il vento soffia.

 

Sbarchiamo.

L’Isola.

La attraversiamo senza fretta, seguendo l’urgenza lenta del caso. E dei miei caffè.

In un bar ricavato nel piano terra di un’abitazione ci raccontano delle dirette social dell’ex sindaco. La pandemia è tale anche nelle menti e nelle bocche: non riusciamo a parlare d’altro. Fragili e forti, anche nell’Isola ognuno ha avuto il suo ruolo: “Le aspettavamo ogni sera, se lui ritardava di qualche minuto, iniziavamo a scrivergli: ma oggi niente?! Quest’anno la novità sono i vaccini: ci sono stati morti, sa? La gente ha paura”.

Lo so. So tutto. Abito qui di fronte. Sono mesi che dalla terraferma sento parlare dell’Isola. La immagino accoccolata nella sua leggenda. Nella costa opposta insieme ai passeggeri sbarcano anche le parole degli isolani. È strano oggi sentirne la voce: l’Isola raccontata dagli isolani.

 

Il giro, che proprio di questo si tratta, prosegue verso occidente; l’aria si fa sempre più limpida e il mare verde e azzurro. Cale e costoni, attraversiamo Cala Francese e la sua meraviglia: qualche turista, tanto silenzio e un azzurro lucente a riempire gli occhi e i polmoni.

Il padrone del locale, dove cerchiamo cibo e fresco, si avvicina al nostro tavolo, ci individua tra i tanti turisti che ondeggiano, pelli bianche, bambini, accenti nordici. Noi scegliamo l’ombra, cozze pepate e del vino bianco: “Che bello avere qui con noi dei conterranei!”.

“Ma veramente nella nostra percezione questa non è Sardegna”, gli rispondo in modo candido e assertivo. Mih, mortu s’òmine! Lui si rannuvola: “Mi dispiace molto che voi abbiate questa percezione.” Cosi sospesa tra i vostri noi e voi, gli chiedo di parlarmi in maddalenino. Mi racconta l’Isola. È sereno, non si lamenta e non parla della pandemia.

E poi nascono un accordo spontaneo e una comune veduta: bella l’Ogliastra, ma quanto è distante! E rispetto a questa terra diventiamo tutti un grande noi. Le vostre rispettive case sono il nuovo punto cardinale di riferimento. Quanto sole e quanto mare di fronte a noi, quante genti e quante lingue: la vicinanza e la lontananza sono luoghi comuni o percezioni, stati dello spirito e, meno prosaicamente, interminabili movimenti circolari degli pneumatici. A salutarci arriva il cognato: è sassarese, vive qui da trent’anni. Gli dico che è facile scegliere l’Isola e lui: “Sì, ma qui non hanno la cionfra!”.

 

Lasciamo il locale, seguiamo la costa, i bagnanti arrossati, il vento che rende più agile il percorso e le pietre meno calde e davvero gli occhi non sono sufficienti per accogliere tanta bellezza.

“Che meraviglia, quest’Isola!”

“Sì, ma l’hai sentito che non hanno la cionfra?”.

 

Via terra si giunge a Caprera. Il museo di Garibaldi è chiuso. Mostro il giusto dispiacere che si conviene: voglio solo camminare oros a oros lungo tutta l’Isola, fare foto e parlare di niente. Avrà pazienza Garibaldi del mio giugno feriale!

“Garibaldi avrà percorso tutta Caprera a cavallo?”

“Mi hai detto che c’è stato venticinque anni!”

“Il tempo l’ha avuto! Lo sai che era una star? Una volta l’ammiraglio Nelson…”