Di Lucia Cossu

 

“Vada avanti, indietro, sollevi il mento, è come una foto, guardi avanti, un po’ indietro”.

Aeroporto di Olbia, anno domini 2021, anno secondo p.c., post covid.

“Mascherina riconosciuta, mascherina non riconosciuta”. Sul tablet si alternano le due scritte rosse in loop. E la sbarra non si alza.

“Ehi, sono qui!”. Ballo davanti allo schermo, faccio facce, gli occhi un tanto. Cerco di convincerlo a lasciarmi passare, ma le luci continuano a lampeggiare, sorde.

L’addetto mi sostiene moralmente, è lui a suggermi i passi di danza per passare di livello. Sia benedetto il soccorritore! Sono le 5.30 del mattino, chissà, a fine turno, quanta stanchezza si sarà depositata sui suoi occhi e sulle parole. Prende il mio biglietto, lo posiziona sullo scanner e finalmente posso proseguire il cammino.

Il volo è alle 7, ma io la sorte non la sfido mica e così anticipo tutte le file e tutti i tablet da qui all’infinito, per Roma e per l’iperuranio.

La mattina ha avuto inizio a notte fonda. Beh, dato che ho due sveglie sincronizzate per darmi il buongiorno alle 4.30 del mattino, devo svegliarmi almeno alle 2! Non posso certo correre il rischio che la sveglia mi trovi impreparata o addirittura addormentata.

La strada per Olbia si srotola placida e silenziosa. La Gallura ti entra subito dentro le vene: montagne fitte di boschi profumati e pietre solitarie, lucide di sole e di vento; linee di costa frastagliata, che segnano il confine tra il mare e la terra, sono già orizzonti di un confine liquido e sabbioso e roccioso, che si fa morbido e duro all’occorrenza. È una terra antica, questa, che tutti i venti conosce e da tutti i venti si fa accarezzare.

Ho piegato e raccolto i capelli dietro la nuca. Davanti allo specchio faccio mie le parole della ragazza delle borse: tanto disinfettante e legati i capelli! Quella sera ero scrabionata, ma neanche tanto, nella media, la mia personale media. Ma noi donne siamo così: la nostra non è semplice empatia, quando ci raccontano qualcosa, iniziamo subito le riprese del film. Siamo lì, sangue negli occhi, con la valigia, il covid, la gente. Siamo lì! È naturale – e sacrosanto – rubricare consigli e avvisi, per la gioia dei maschietti che condividono le nostre giornate.

Comunque, allo specchio, i capelli li lego: una treccia contro il covid, una treccia contro l’ansia, una treccia che mi sappia riportare a casa.

Ho organizzato il viaggio con perizia maniacale. Infatti, quando l’addetta mi chiede se ho un tablet con me, devo rovesciare solo mezza valigia, l’altra metà, sì, è rovistata, ma non finisce sul rullo. Sono soddisfazioni, queste!

“Non fa niente, vada pure”.

“No, no, il tablet ora lo trovo”.

Ed eccolo, il tablet, jeans, libri…

Sono circondata da tutte le tipologie possibili di viaggiatori – umanità varia – c’è quello con il disinfettante e biglietto e ansia in mano; la prima della fila; l’ultimo, quello che si attacca alla coda dell’aereo; chi, come se non ci fosse un domani, – e non sapesse leggere – urla: “per Roma?! Roma?! Qui?!”. Il tipo polemico, che a lui niente può andar bene: il DPCM e la temperatura, e il tablet, il covid e agitoriu. Però l’aereo lo prende e tace, ma, una volta a terra, ritornerà il terrapiattista di sempre.

Io sono quella seduta in prima fila, osservo come fanno i gatti dietro i vetri, poi mi rivolgo alle due signore sarde – il suono familiare della parlata barbaricina, dopo giorni d’italianità, mi accarezza l’udito e il cuore – le immagino sorelle:

“Dobbiamo andare!”.

“Non ci hanno ancora chiamato”.

“Ma hanno finito i passeggeri!”.

Immancabili gli sboroni “ahò!”. Maschi, cinquantenni, contravvenendo agli ordini del comandante, si alzano, sbruffoni, e iniziano a prendere le valigie dalle cappelliere, urlano. La hostess spicca il volo verso di loro, cappellino e tacchetti e cazziatone epocale. Si capisce dal tono: è più indispettita dall’arroganza che dalla disobbedienza. Li pettina a dovere, i due sbruffoneggiano per altri dieci secondi, poi si siedono, sconfitti dai decibel e dal piglio di lei.

“E rimettetevi la mascherina sul naso!”.

“Mah…”.

“Sul naso!”.

 

Dentro la burocrazia ci sta tutto il mar Tirreno! Sono andata in aeroporto, qualche giorno prima del volo, per non perdermi tra i passaggi e i fogli e i timbri. E devo dire che ci siamo impegnati! Voto: 8. L’Italia è una Repubblica fondata sulla burocrazia, ma quale lavoro! Nell’articolo primo lo devono scrivere, così chi arriva lo sa già.

 

Il covid è quel presagio funesto che potrebbe annidarsi dietro ogni mascherina, insieme al naso, perché nasi e bocche esistono ancora, mentre la loro semantica no, il covid l’ha soppressa. Tra varianti e invarianti, le mie precauzioni sono infinite. E tanta è la ginnastica che accompagna queste giornate: i quattro piani dell’hotel li faccio deghe bortas a die, l’ascensore no, quello proprio non lo prendo. Non sono una virologa né una biologa, per questa ragione, la pratica vince la matematica!

Mi dicono da più parti che i treni siano pieni di covid e di gente poco raccomandabile. Nel dubbio di confondermi tra covid poco raccomandabile e gente, decido di seguire il consiglio ed eccomi su un taxi.

All’aeroporto di Fiumicino non dev’essere arrivata la notifica della pandemia in corso: gambe, teste, luci, commercio, moltitudini e folle, dato tutto questo agitarsi la fine del mondo dev’essere vicina!

Ad Olbia è tutto chiuso, atterriamo in un altro emisfero, è un mondo silenzioso. Semus in domo!

 

 

Foto:https://it.wikipedia.org/wiki/Aeroporto_di_Olbia-Costa_Smeralda#/media/File:DL2A_Terminal_Olbia_Airport_Sardaigne_2.jpg