Marino De Rosas è nato a Olbia cinquantanove anni fa. Avrebbe voluto imparare a suonare la fisarmonica invece, all’età di quattordici anni, si ritrovò in mano una Carmelo Catania del ’53, la classica chitarra che stava appesa un po’ in tutti i saloni dei barbieri. I primi rudimenti dello strumento glieli insegnò il padre, poi De Rosas andò avanti da solo suonando rock e pop. L’amore per la chitarra classica, e soprattutto per flamenco e fingerpicking, nacque quando aveva ventiquattro anni. L’esperienza, l’impegno e un gran tocco hanno fatto di lui uno dei più apprezzati chitarristi isolani, un musicista che dedica alla nostra terra gran parte delle sue composizioni.
Come nascono i suoi pezzi?
Io ho un approccio quasi casuale con la melodia. Può essere una partita a far nascere il giusto stato d’animo che crea la composizione, un sogno, le parole di un amico, un momento di pesca, un film visto in tv, persino un funerale. La musica in potenza è già nell’aria. È un impulso che prendi da fuori, lo butti dentro e il tuo cervello lo trasforma in note.
Cos’è che la spinge a utilizzare un’accordatura aperta?
La voglia di sperimentare nuove sonorità. Questo tipo di accordatura garantisce più autonomia allo strumento. Ne aumenta l’estensione di un’ottava. Avevo iniziato a usarne una in La, ma era troppo drammatica. Quella che uso ora, in Do, è più brillante e sonora. Tramite questo espediente la mia musica, che viene da altre radici, si porta dietro sonorità che la accostano alle atmosfere sarde.
Che musica ascolta di solito?
Farei prima a dire quella che non ascolto. Per me la vita è fatta di musica, la produco ma ne sono anche un consumatore accanito. Parrà strano, a chi non mi conosce personalmente, che un chitarrista come me, che suona la mia musica, sia un patito di Jimi Hendrix. A parte il suo lato distorto, le droghe e tutto quanto, di Hendrix mi piace il personaggio, il suo incredibile modo di suonare. Foxy Lady è una delle canzoni che tutt’ora amo di più.
Qual è il concerto dove si è divertito di più a suonare?
Suonare mi diverte sempre. Così su due piedi direi l’ultimo concerto che ho fatto a Sassari, al Governo Provvisorio, il locale dell’IRS. Non perché io sia indipendentista ma perché era davvero una serata simpatica.
E da spettatore, quale invece le è piaciuto di più?
Quello di Franco Battiato a Olbia, sul molo Brin, due anni fa. L’ho guardato dalla barca mentre tornavo da un’uscita di pesca. Ebbene, vedere questo sessantenne, che mobilita settemila paganti solo portandosi dietro la sua orchestra, dando fondo alle sue canzoni, senza fumi e luci, mi ha colpito. Essenziale e perfetto. Un misto di semplicità e ricchezza di contenuti da far invidia. Chiaro esempio di professionalità che diventa arte.
Qual è il concerto che avrebbe voluto vedere e non ha visto?
Di sicuro il concerto dei Beatles quando vennero in Italia nel ’65. Mi mangiai le mani dalla rabbia per non esserci stato. Avevo diciannove anni. In compenso vidi, due anni dopo, al Palasport di Milano, i Rolling Stones. Uno spettacolo gigante.
C’è un musicista che vorrebbe conoscere personalmente?
Mi piacerebbe incontrare Paco de Lucia, perché penso che tecnicamente sia il miglior suonatore di flamenco del mondo. Un vero mostro sacro. Gli direi: ma che dieta fai?
Ma è vero che la sensibilità musicale è innata?
Penso di sì. Tutti ce l’abbiamo, poi ognuno la codifica a modo proprio. Anche chi fischietta un motivetto che ha in testa è un po’ compositore e un po’ musicista.
A che sta lavorando ora?
A nuove composizioni legate ai temi cari alla terra in cui vivo. Cerco le mie origini, le mie radici. Sono un po’ pigro, ma penso che il nuovo album vedrà presto la luce.
Che ne pensa degli altri musicisti sardi?
Amo molto l’attaccamento che hanno i suonatori di launeddas verso il modo classico di suonare. La loro tenacia nel preservare immutata la tradizione. D’altro canto però, mi attira la libertà di rompere gli schemi. Allora apprezzo anche chi sperimenta, chi cerca l’innovazione. Io per primo contamino e mi faccio contaminare. Penso sia un modo per giungere alle orecchie di chi non accetta la musica prettamente tradizionale, perché la considera troppo impegnativa.
Che consiglio darebbe agli isolani?
Di non essere troppo vittimisti e di non sentirsi sempre dominati. Perché sono tutte scuse per mascherare il nostro non fare, ed è giunto invece il tempo di sollevarci le maniche.