Quando e come giunsero i primi monaci nella nostra Isola? A quale movimento monastico appartenevano: al movimento latino o a quello greco-bizantino meglio noto come basiliano? Quesiti molto diffusi tra gli storici sardi e ai quali ancora non si è risposto pienamente. Come è noto, le fonti documentarie sull’Alto Medioevo sardo sono scarsissime, per questo motivo le interpretazioni sulla genesi e sulla diffusione del monachesimo isolano sono state spesso contrastanti. Questa controversia è presente anche tra storici e studiosi del Meridione italiano e della Sicilia, i quali, nonostante possiedano maggiori fonti, non hanno ancora stabilito come e quanto il monachesimo orientale si sia diffuso nei propri territori.
Il problema è ben più complesso di una semplice dicotomia, e basare la ricerca esclusivamente sullo studio delle fonti documentarie non è sicuramente il percorso analitico ideale per comprendere appieno il fenomeno dei movimenti monastici. Le primissime forme monastiche cristiane dei primi secoli dopo Cristo sono caratterizzate da un forte ascetismo, consistente fondamentalmente nell’imitazione della vita di Gesù Cristo narrata nel Vangelo, nel disprezzo di tutti i beni materiali, nella pratica della castità e della mortificazione. In seguito l’esempio e la guida di alcuni grandi capi spirituali venerati con grandissima ammirazione, e il numero sempre più crescente di asceti, iniziò a modificare questo originario monachesimo: alcuni si raccolsero in gruppi, i cenobiti, altri invece vivevano rigorosamente isolati, gli eremiti.
In Oriente San Pacomio per primo, e in seguito Eustazio di Sebaste e San Basilio di Cesarea, cercarono di disciplinare questo movimento, orientandolo verso la pratica di una vita liturgica e spirituale comune (IV sec. d. C.). Infatti col passare del tempo la vocazione del monaco non era più soltanto un orientamento morale, ma divenne una ”professione”, una vita che si sviluppava in seno ad una società animata dalle regole e fondata su una tradizione di cui l’abate e gli anziani erano l’incarnazione vivente.
Se l’esperienza di San Pacomio fu importante per il passaggio concreto e consapevole dal piano eremitico a quello cenobitico, permettendo l’espansione monastica in tutta la cristianità, la grande esperienza di San Basilio completò l’evoluzione monastica.
Nella sua opera attenta e sistematica ripropose il discorso nella luce duplice, ma convergente, della perfezione individuale e dell’esperienza comunitaria, centrata sulla liturgia e impegnata sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro. Fu nel monastero di Studion, sulle rive del Mar di Marmara nei pressi di Costantinopoli, che l’ideale e la pratica basiliani trovano la loro manifestazione più coerente e più completa.
In piena epoca bizantina, fra i secoli VIII e IX, questo monastero ebbe fra i suoi il grande San Teodoro, detto appunto ”studita”, di cui dall’agiografia ricaviamo essere stato anche in Sardegna. Intanto in Occidente, con la diffusione della regola benedettina (VI sec. d.C.), nasce il monachesimo che chiamiamo ”latino”. Prima di San Benedetto e della sua Regola non possiamo parlare di un monachesimo occidentale con caratteri tali da distinguerlo nettamente da quello orientale: gli ideali ascetici che hanno animato il monachesimo occidentale sono stati fondamentalmente quelli dei più importanti esponenti del monachesimo orientale.
L’accreditata opinione che il monachesimo sardo sia sorto esclusivamente grazie ai monaci africani e alla grande figura di Fulgenzio di Ruspe (V-VI sec.) non esclude perciò l’ipotesi che il monachesimo sardo abbia una matrice sostanzialmente ”basiliana” e più generalmente orientale. In Sardegna non vi furono monaci benedettini che spontaneamente si insediarono nei vari territori, ma la diffusione della regola di San Benedetto si deve alla tenacia e determinazione del papa Gregorio Magno (535-604) che in tutti i modi tentò di imporre tale regola ai religiosi dell’isola.
Tentativo di latinizzazione che risultò piuttosto infecondo. Nel VII secolo i successivi pontefici non ebbero la medesima energia del loro predecessore, lasciando perciò agli elementi greci della Sardegna, della Sicilia e dell’Italia Meridionale maggiore libertà di assurgere a posizioni di guida della vita spirituale di questi territori. Prova di ciò sono le note lettere del monaco Anastasio ai monaci di Cagliari e la professione di fede di Eutalio, vescovo di Sulci (VII sec.) che indicano quanto stretto fosse il legame tra le direttive bizantine e le province apparentemente più isolate come appunto la Sardegna. Ma quali potrebbero essere in Sardegna le sedi, le dimore dalle quali si organizzò e si propagò la missione evangelizzatrice dei monaci orientali?
La chiesa bizantina conosceva tre forme distinte di vita monastica: la vita dell’eremo, in cui il monaco viveva isolato, governandosi da se stesso e senza alcun superiore; quella del cenobio, in cui i monaci vivevano in comune, sotto la guida di un abate, un igumeno, e quella della laura, che in certo modo voleva unire i vantaggi della vita eremitica con quelli della vita cenobitica: struttura che si trova solitamente in aperta campagna, formata dall’unione di diverse celle, poste sotto il governo di un unico capo, per cui da un lato i monaci potevano godere di una certa solitudine, ma dall’altro potevano riunirsi e incontrarsi nella chiesa, il centro della laura, per celebrarvi gli uffici divini.
Vari santuari e toponimi presenti diffusamente su tutto il territorio sardo sembrano ricalcare in pieno queste singole forme del monachesimo orientale. Prendiamo ad esempio il toponimo s’erimu: è presente ad Esterzili, a Codrongianus, a Ossi nonché a Fonni dove lo stesso sito viene anche chiamato sa ’idda de sos gregos. Tutti centri dell’entroterra e poco accessibili, quindi idonei alle esigenze dell’eremita. Il cenobio invece può essere identificato con quei luoghi facenti parte delle comunità stesse.
È il caso di quei paesi al cui interno sono presenti delle chiese con annesse le caratteristiche cumbessias o muristenes, dette più raramente domus de su pellegrinu: logge o casupole di scarso interesse architettonico annesse in questo caso alle chiese parrocchiali. Le troviamo ad Orani nella chiesa e Convento dei Minori, a Porto Torres nella nota basilica di San Gavino e a Bonarcado nella chiesa di Santa Maria. Infine la laura, che rappresenta forse la tipologia più diffusa e riconoscibile anche ad una lettura superficiale: racchiude in sé le caratteristiche dell’eremo e del cenobio, è un luogo in cui si sta in solitudine, nel senso che si vive solo tra religiosi, ma si conduce una vita di gruppo con doveri precisi.
Altri complessi architettonici di muristenes o cumbessias, ma stavolta diffusi in aperta campagna, potrebbero rappresentare proprio quest’ultima tipologia. Sono presenti particolarmente nelle zone più interne, in quelle stesse zone dove l’evangelizzazione fu certamente più difficile e ardua: ancora alla fine del VI secolo Gregorio Magno esorta il dux Ospitone, comandante dei Barbaricini, a convincere i suoi sudditi ad abbandonare i culti idolatri –pietre e legni– e convertirsi al Cristianesimo. È importante notare come in questi ”centri monastici” siano sempre presenti degli insediamenti nuragici di notevole portata.
In alcuni casi è evidente la volontà dei monaci di cancellare ogni traccia del sito preesistente, impiantando l’edificio chiesastico, cioè il nucleo della laura, sulle fondamenta del nuraghe stesso, in altri casi invece assistiamo con stupore alla concomitanza di entrambi gli esempi sacri, l’indigeno e il cristiano. Un caso emblematico è la chiesa di Santa Sabina di Silanus, affiancata da uno splendido nuraghe. Vico Mossa nel suo testo ”Architettura domestica in Sardegna” descrivendo i complessi dei muristenes afferma che questi sono assai simili a costruzioni frequenti in Oriente, specie al Khan della Palestina: ”Il recinto ha l’ingresso sovente denunciato da un ampio portale, come appunto i primitivi alberghi palestinesi e persiani; oppure ne ha due, uno rivolto ad Oriente e l’altro ad Occidente. Come nei caravanserragli, vi si trovano il pozzo, i pioli per i puledri, e dietro le case tettoie per gli animali; dal ”cortile interno” si accede direttamente alle camere che sono anche qui, come in Persia, in numero di circa dieci su una sola linea”.
Il confronto con la realtà mediorientale è molto utile. Infatti il monachesimo palestinese nasce, verso la fine del III secolo, nel deserto di Giuda a sud di Gerusalemme, dove gruppi di eremiti cristiani cresceranno notevolmente di numero nei decenni successivi. Alcuni saranno del tutto autonomi, ma la maggior parte di essi, a cominciare dal IV secolo, conoscerà l’organizzazione embrionale della laura. Questa combinazione fra vita eremitica e vita cenobitica diventerà una caratteristica del monachesimo palestinese, molto simile all’ordine latino dei Certosini. Nessuno ha ancora stabilito quale sia la genesi dei nostri complessi religiosi di muristenes e cumbessias, ma la matrice orientale sembrerebbe abbastanza evidente.
Inoltre questi stessi santuari sono intitolati a santi appartenente al Menologio greco per esempio San Costantino a Sedilo, Santa Cristina a Paulilatino, San Michele a Ollolai, ecc. A partire dal XI secolo, l’allontanamento culturale e politico da Bisanzio si fa sempre più profondo. I regnanti sardi, gli judikes, concederanno a diversi ordini monastici benedettini i vari centri religiosi, cenobi e laure, affinché ordinent et lavorent et edificent et plantent. Il Grande Scisma del 1054 (i due patriarcati di Roma e Costantinopoli diventano Chiese indipendenti, con liturgia e regole proprie) contribuirà maggiormente ad allontanare il clero e il monacato greco dalle terre sarde. Nonostante questa secolare e forzata separazione, ancora oggi a distanza di quasi due millenni, si trova a Quartu Sant’Elena una parrocchia greco-ortodossa nella quale viene officiato il rito greco-ortodosso da circa vent’ anni.
La chiesa raccoglie intorno a sé alcune centinaia di fedeli (tra Cagliari e i centri dell’hinterland) ed è dedicata a San Taddeo Apostolo. È un’archidiocesi e alcuni anni fa ha ricevuto la visita ufficiale del Metropolita di Venezia Spiridione, facente capo al Patriarcato di Costantinopoli. Sono molti i segni che la civiltà orientale-bizantina e in particolare la spiritualità religiosa ha lasciato impressi nella nostra terra. Gli studi sin qui condotti analizzano limitatamente documenti, epigrafi, sigilli e reperti numismatici, ma data la complessità della civiltà bizantina è auspicabile l’ampliamento della ricerca ad altri percorsi di studio come la toponomastica, l’archeologia, l’antropologia culturale che, pur non rappresentando gli usuali percorsi dello storico, potrebbero rivelare importanti tasselli per comporre il grande mosaico della civiltà sarda.