La voce forte, corposa, arriva chiara dalla cucina in fondo alla sala da pranzo. ”Ti piàghene sos bulurzones?”. I movimenti svelti su pentole e mestoli tradiscono l’impazienza di tornare nella penombra della grande stanza per raccontare un altro frammento di vita. Ma la storia della ”figlia del ferroviere” è tutta qui, sulle pareti della sala da pranzo, tra un imponente divano in pelle e una vetrina piena di libri e riviste: quadri, ritratti di figli e nipoti, gigantografie di paesaggi sardi perduti, la statua di una madonnina adorante. La giovane donna della grande foto ovale sorride, orgogliosa di regalare all’occasionale fotografo un’immagine inedita: pantaloni, lunghe trecce nere e fucile da caccia in spalla.

 

Quando Elena Deriu, macomerese di 64 anni, ricompare nella grande sala ha sul viso lo stesso sorriso largo del ritratto che bene maschera quel ”senso d’inferiorità che – dice lei – accompagna chi ha vissuto nelle cantoniere solitarie della ferrovia”. ”La sensibilità che ti trasmette la campagna te la porti dietro per sempre. Vivendo a contatto con la natura – spiega -, si impara a rispettarla, ad amarla. Ad amare. Non è un caso che i più grandi poeti improvvisatori della tradizione sarda siano stati pastori e il loro talento nasce proprio da questa sensibilità acquisita. La campagna è poesia e l’una ti appartiene esattamente perché ti appartiene l’altra. ”La poesia nella mia vita è fondamentale, esattamente come il contatto con i monti e i boschi della Sardegna”, dice sorridendo. ”Non per niente ho sposato un pastore-poeta, Salvatore”. Coniugando così due momenti essenziali della sua vita. ”Alla poesia ho dedicato molti anni ed energie, cercando di portare avanti diverse iniziative culturali tra cui il Premio Sa terzina, intitolato a Pedru Caria, il poeta minatore di Macomer, di cui sono stata presidentessa fino alla sua interruzione”.

 

Un’attività infaticabile, quella di Elena, quasi una battaglia contro un muro di diffidenza. Quanto costa la cultura a Macomer? ”Costa cara, come dovunque. Il premio è stato per lungo tempo uno dei più prestigiosi della Sardegna, in dieci anni abbiamo ricevuto più di 5000 poesie inviate da poeti già affermati o da neofiti. Fu lo stesso Caria che, rispondendo dal suo esilio nelle miniere di Iglesias a chi lo invitava a partecipare alle gare poetiche, diceva: Meda zente l’iscriet a Caria ma oe apo s’onore de mi ’antare chi m’at iscritu unu poeta sardu”.

 

Parole evidentemente profetiche. ”Le stesse parole che vorrei riportare in una lapide da affiggere nella sua casa natale; dopo l’intitolazione di una piazza del paese, il passo successivo è questo”. La strada da percorrere è però ancora lunga: salvare la poesia sarda, permettendole di crescere ancora è un’urgenza. “Da anni mi sto battendo perché le amministrazioni stanzino i fondi per la realizzazione di una fontana da dedicare ai poeti. Ne parlo da tempo ed ho già raccolto un po’ di sottoscrizioni con cui vogliamo dare forma ad un monumento: una madre, già musa ispiratrice del Caria e per chiunque si avvicini alla poesia”.

 

Un progetto modesto ma significativo, davanti al quale in pochi hanno mostrato la necessaria sensibilità. ”I soldi che ho raccolto sono stati donati soprattutto da poeti, (e chi se no?) ma sono insufficienti. La restante parte l’ho messa di tasca mia. Ora attendo che qualcuno si muova per portare a termine questo progetto che, in barba ai macomeresi, è già stato realizzato in molti altri paesi”. Più che una passione, quella di Elena appare come una totale dedizione, tradita dai movimenti lenti ed emozionati delle mani. Tremano mentre parla di ”un’abilitazione”. “Ognuno di noi ha uno scopo nella vita, qualcosa per cui è abilitato. Io sono abilitata a portare avanti battaglie dai contorni spesso difficili ma in cui credo fermamente, anche a costo di scontrarmi con l’incomprensione della gente”. Ecco rivivere lo sguardo della ragazza con le lunghe trecce nere e il fucile in spalla, incapace di fermarsi davanti al suo essere donna a Macomer, moglie di un pastore a Macomer: confini, ”làcanas”, a volte difficili da rispettare.

 

 ”Nella mia vita ho sempre dovuto dimostrare qualcosa – ammette -: ciò che agli altri era concesso naturalmente a me costava caro. Spesso questo mi succedeva in quanto donna”. Come quando nel 1984 divenne assessore all’agricoltura del Comune di Macomer, un feudo quasi esclusivamente maschile. ”Lì mi toccò fare una doppia rivoluzione: dimostrare che non ero un semplice fantoccio nelle mani di qualcuno e portare in Comune le reali problematiche del mondo agropastorale, allora più di oggi alla base dell’economia locale”. Un’esperienza che ancora ricorda con orgoglio. ”Portare i pastori in comune significava sfidare la Dc e quindi la Coldiretti che in Sardegna trovava vacche grasse. Ma poco mi importava. Il nostro capitolato sull’organizzazione delle campagne ce lo chiesero in molti altri paesi. In un certo senso sono stata un’innovatrice”.

 

E niente sembra più difficile del portare la novità tra chi cerca di mantenersi ancorato alle sue sovrastrutture, ancorché arcaiche e inadeguate. “Essere innovativi significa andare controcorrente, sfidare la gente, convincerla che ci sono obiettivi da raggiungere che vanno al di là della diffidenza. Molte difficoltà. Anche perché non mi sono mai voluta piegare a certe regole sporche della politica. Rispetto ai miei predecessori avevo qualcosa in più: conoscevo il linguaggio dei pastori, il linguaggio del mio territorio, il linguaggio del cuore”.

 

E a volte basta la volontà a fare la differenza. ”Penso di avere una grande forza dentro di me. Nonostante abbia sempre vissuto nei passaggi a livello, lontano dai paesi, non mi sono mai sentita sola: né in campagna, né in consiglio comunale, né con i banditi”. Né davanti alle delusioni. ”Come quando dopo aver lavorato per mesi per la realizzazione del premio di poesia, mi comunicarono che non sarei potuta diventarne il presidente perché non ero un poeta e non ero di Macomer. La cosa mi offese così tanto che scrissi una poesia e la inviai al Premio di Ozieri dove non si piazzò nemmeno tanto male”. Una delusione che però ha segnato l’avvio di una nuova avventura, che forse tanto nuova non era.

 

”Quando si ha un grande poeta in casa – confessa – si scrive di nascosto. Anche perché questi poeti conservano tutti un certo livello di superbia. Quindi, piuttosto che farmi distruggere ogni illusione da mio marito, ho preferito scrivere solo per me”. Almeno finché non è stato inevitabile uscire allo scoperto e rivelare di aver vinto il primo premio alla competizione di Ortueri. ”Solo dopo aver visto il mio nome e la mia poesia sulla pubblicazione ufficiale, Salvatore ha detto: Como mi podes narrer de tue! Mi aveva elevato al suo rango. I poeti spesso sono fatti così”. Il nuovo mondo si era dunque aperto e, al di là dell’orgoglio, ciò che ora traspare è la consapevolezza di vivere la vita proprio come una poesia, ”con entusiasmo e amore”. “La poesia per me è come un velo, unu lentore, una rugiada che addolcisce le asprezze della natura. Sì, ma io non mi sento poetica solo quando compongo un verso: tutta la mia vita è una poesia.

 

Vivo con dolcezza, accarezzando la vita per limare tutte le guglie che altrimenti mi avrebbero trafitto”. Gli stessi sentimenti che l’hanno spinta a scrivere un racconto in sardo, poi tradotto in italiano e inglese, dedicato ai numerosi nipoti e a tutti i bambini. ”Sa notte e Nadale” (edito da Grafica Mediterranea), realizzato in edizione scolastica, ha beneficiato anche di una trasposizione teatrale messa in scena in diversi istituti. La poesia, la lingua sarda, la famiglia, la campagna. Ma non solo. Ecco un altro sogno nel cassetto: poter tenere un corso per insegnare ai giovani un’arte ormai quasi scomparsa: i pitzeris, piccoli animaletti, ma anche frutti, fiori, realizzati attraverso la manipolazione del caciocavallo.

 

”A Macomer vengono realizzati e offerti in dono a San Marco, festeggiato nel mese di aprile. E’ un lavoro manuale, deciso ma semplicissimo da fare”. Ed è proprio lì, in quelle mani forti, che si sintetizza l’essenza di una vita. ”Un maestro, quando avevo dodici o tredici anni, consigliò a mio padre di farmi lavorare piuttosto che studiare: bides sas manos fortes chi tenet sa pisedda? Disse. Così lasciai i banchi di scuola per dedicarmi ai lavori manuali, in famiglia e per la famiglia”. Mani forti che non le hanno impedito di accostarsi allo studio, alla poesia. Quelle stesse mani che dopo un incidente stradale, 16 anni fa, hanno restituito la luce ai suoi occhi ormai spenti. Mani che si sanno muovere con sapienza, mani generose, mani che promettono altre battaglie. L’immagine è sempre quella: il fruscio delle fronde degli alberi e l’eco di campanacci lontani. In primo piano una giovane Elena, con le lunghe trecce nere e un fucile in spalla.