L’affascinante e misteriosa vocalità del canto a tenore nasce, probabilmente, con l’intento da parte dell’uomo di imitare quei suoni della natura che lo accompagnavano nel silenzio e nella solitudine dei pascoli: il basso ricorda il muggito del bue, la contra il belato della pecora, e la mesu ’oche semplicemente il vento. Sa ’oche è invece l’Uomo che sovrasta le altre voci ma allo stesso tempo è pienamente integrato.

 

Un canto che nasce in ”silenzio” e in ”solitudine” e che diventa nel suo caratteristico dispiegarsi ”voce” e ”moltitudine”: moltitudine dell’universo, degli esseri che lo abitano, della natura che lo vivifica. Solitudini e silenzi che propri di una civiltà pastorale, non sono però mai sconfortanti o desolanti ma al contrario fecondi di forza, vigore e vitalità.

 

E magicamente da quei ”silenzi” nascono suoni, rumori, ritmi e misteriosi nonsense intervallati da versi e rime che prodigiosamente trascinano chi ascolta in una dimensione surreale, in un vertiginoso smarrimento dell’anima che con mistero si riappropria del suo essere Animale e del suo essere Terra.

E non è semplice riprendersi, destarsi dall’incanto di questa trama, si rimane catturati come per la soca mamoiadina in tempo di carnevale: una stretta dolorosa ma allo stesso tempo piacevole e attesa. Si torna indietro nel tempo con il canto a tenore, nel tempo incantato del mito quando nelle viscere e nell’acqua si leggevano presagi e la morte era soltanto un passaggio attraverso un uscio di granito. E il tenore oggi canta questo: alza la sua voce cavernosa insieme ai propri compagni di vita e in un abbraccio inseparabile tesse la melodia. Canta il tempo, canta l’infinito, canta la natura, canta la bellezza. Il variegato cosmo della comunità viene racchiuso in questo magico ”cerchio vocale” che tutto avvolge, che tutto congiunge nello stretto abbraccio degli uomini: il sole e la luna, la femmina e il maschio, la vita e la morte.

 

È un cerchio che attraverso la sua forma sembra rimarcare la necessità dello stare insieme, del valore dell’unità e dell’uguaglianza fra gli uomini. Le voci si alzano diversissime ma unite nell’intento di trovare l’armonia. Un’armonia che è più che musicale: è l’armonia interiore, del villaggio, della comunità e dell’universo. I brani che vengono cantati sono tantissimi e provengono da un’ampia tradizione orale e scritta: canti sacri dedicati a Dio, canti profani per amate e predilette, ma anche canti politici e canti di satira, canti estemporanei e versi liberi.

 

Per questo non rimarremo stupiti se l’Unesco deciderà di accettare la recente proposta della Provincia di Nuoro di considerare il canto a tenore ”patrimonio dell’umanità” e conseguentemente di rendersi garante della sua sopravvivenza. Non si stupiranno coloro che cantano e hanno sempre cantato a tenore, e che si son resi portatori in tutti questi anni di una specificità, di una diversità che rappresenta una ricchezza inestimabile fin troppo spesso ignorata. Attraverso questi canti ci hanno trasmesso i segni intangibili di un popolo, quei sinnos di cui ci parlava Mialinu Pira e che ci rendono diversi ma uguali, incomparabili ma universali. Ma non si stupiranno nemmeno coloro che non cantano, o che non possono farlo perché donne, ma neanche chi non è sardo, o chi addirittura non è europeo.

 

Dopo aver sentito questo suggestivo canto delle viscere, a tutti sarà evidente il valore e l’importanza dell’operazione sociale e politica che questo riconoscimento avrà per il nostro popolo e per chi è ”altro” da noi. Non è uno show che l’Unesco dovrà salvaguardare, né strane performance o spettacolarizzazione folklorica, dovrà semplicemente rendersi tutore autorevole della nostra diversità e della nostra ricchezza. Una diversità che per noi si traduce in lingua, tradizione e cultura in senso lato. Non è il ”palco” che cerchiamo o desideriamo, ma vogliamo e dobbiamo riacquistare profonda consapevolezza di noi stessi e del nostro ”essere”. Abbiamo bisogno di continuare a cantare – per noi stessi innanzitutto – di ballare spensierati su ballu tundu, di addormentarci cullati da ninnie e mutos e di parlare, scrivere e cantare la nostra limba.

 

 

Limba significa innanzitutto ”libertà”e purtroppo non siamo ancora liberi di parlare e comunicare nella nostra lingua: né in tv, né nell’amministrazione, né a scuola e tanto meno possiamo scrivere in giornali o atti ufficiali. Questa libertà è andata perduta, smarrita nella nostra insicurezza e nelle nostre miserie. Ma il tenore è lì a ricordarci che dobbiamo recuperarla, questa ”libertà”.

 

Usando la nostra lingua, narrando il nostro tempo e il modo nuovo di essere sardi e cittadini del mondo, cantando dolori, gioie e tutto ciò che ci appartiene in una forma musicale originale, fatta di mistero e sentimenti atavici. Con questa iniziativa la Provincia di Nuoro ha dato un segnale forte e diverso: vi è infatti nella candidatura presentata all’Unesco una volontà politica e intellettuale precisa, una coscienza nuova e moderna che agisce nel locale ma pensa nel globale.

 

Sono stati infatti coinvolti i cori, non gli pseudo-ricercatori o i discutibili operatori culturali, sono stati chiamati quelli che il ”canto” lo hanno ereditato e continuano a mantenerlo vivo, elaborandolo e adattandolo a questo nuovo tempo. Tradizione significa creare e inventare attraverso scambi con altre culture e altre esperienze.

 

Finalmente la ”tradizione” intesa non come museificazione di costumi e ricerche balzane, ma come serio e logico investimento per il futuro. Tradizione, come sostiene Bachisio Bandinu, è ”un fare non un subire, è un procedere non uno stare”. Ed è questo che ci spetta come Popolo sia a livello individuale che a livello istituzionale: fare, procedere e investire in ciò che siamo e in ciò che sappiamo ”dare”. Un ”dare” sapiente, frutto di millenni di storia, di culture importate da antichi dominatori, di interazione con la natura, di sacrifici e di speranze, di tormenti e di passioni che mai avranno fine.