Viviamo in una società rumorosa, fatta di macchine che sfrecciano a tutta velocità condite di clacson e radio ad alto volume, di cellulari che squillano in continuazione, di i-pod costantemente alle orecchie, quando non è sufficiente la musica che proviene dagli esercizi commerciali invadendo ogni strada.

 

Ebbene in tutto questo costante rumore, abbiamo perso la capacità di sentire, con le orecchie, con le mani, con il cuore. Siamo incapaci di percepire l’anima delle cose, quella che si cela dentro un fiore, una goccia di rugiada, un insetto.

 

Come archeologa, studio le pietre. E per studiare le pietre, è necessario sentirle. Non è vero che le pietre non parlano: esse sudano della fatica dell’uomo; sfidano il vento del tempo per inseguire il loro destino immortale.

 

Toccando le pietre di un luogo di culto, sia esso un menhir, un pozzo sacro, una chiesetta campestre, si possono ancora sentire le centinaia di migliaia di mani che le hanno sfiorate alla ricerca del divino insito nella stessa materia di cui sono fatte. Lo facciamo anche noi oggi quando ci rechiamo a Lourdes, e istintivamente siamo portati a toccare le pareti della grotta dell’apparizione per trovare un po’ di conforto o semplicemente per lasciare una preghiera.

 

Le pietre dei luoghi sacri sono dunque preghiere tattili, ed è per questo che sfregiare un sito archeologico (di qualsiasi natura esso sia) è in primo luogo un sacrilegio: sos antigos (i nostri avi) lo sapevano bene, dal momento che hanno avuto la premura di preservare i monumenti sino a noi, credendoli opera di giganti o dimore di piccole fate.

 

Oggi si è perso il rispetto per le pietre, e dunque per il patrimonio archeologico, perché esse sono divenute semplici agglomerati di minerali ritoccati dall’ingegno dell’uomo. Eppure, dentro ogni singolo masso lavorato con cura, si percepisce ancora tutta la loro forza.

 

Impariamo a sentire le pietre: esse hanno ancora tanto da raccontare.