giuseppe marciCaro direttore,

un lettore  che ha seguito il nostro scambio di opinioni comparso nello scorso numero di Làcanas mi ha detto che trovava fuor di luogo – quasi un’esibizione di sentimenti privati in uno spazio pubblico – le attestazioni di stima che ci siamo reciprocamente scambiati. Vorrei spiegargli che, per parte mia, non c’era niente di privato e che egli, il lettore, non era escluso da quello scambio ma veniva chiamato in causa ed eletto come testimone essenziale di un discorso che potrebbe essere sintetizzato così: io apprezzo il lavoro svolto nel tempo dal mio interlocutore, condivido con lui una prospettiva generale, un orizzonte d’attese, una speranza e, proprio per questo, gli chiedo di aiutarmi a capire un problema che ci riguarda tutti e sempre più appare imprescindibile. La stima e l’amicizia, sostanziali e dichiarate, garantiscono che discutiamo per davvero, anche esprimendo, quando sia necessario, opinioni diverse, ma animati dal comune desiderio di capire per giovare alla nostra società.

 

Con tale spirito vorrei ora riprendere il filo del discorso interrotto nella conclusione della precedente lettera, senza trascurare gli argomenti che proponi nella tua risposta ma spostandoli un poco nel tempo e nella scansione del ragionamento.

Dicevo: ”Ho come la sensazione che a quel che scrive Segre possa essere aggiunto qualcosa”. Tale sensazione, con il passare dei giorni, piuttosto che diminuire è cresciuta, è divenuta un’ammuìnu chi mi sonat in conca. Al ronzio si sono aggiunte altre e più recenti parole dello stesso Segre: ”Dopo la caduta delle grandi dittature, il mondo sembrava aver preso una china ascendente, molti problemi sembravano attenuati o superati. Invece nel giro di pochi anni siamo ruzzolati giù e non si vede neppure come e dove ci si possa fermare” (“Corriere della sera”, 28 dicembre 2005).

 

Uno stato d’animo più o meno simile esprimeva qualche tempo prima Dante Isella: “Non voglio celebrare la fine del mondo, ma si avverte ovunque un calo di tensione” (“Corriere della sera”, 2 novembre 2005). Nello stesso articolo il cronista rievocava l’esperienza della generazione nata negli anni venti: il fascismo, la guerra, l’internamento militare, il campo universitario: ”Friburgo, negli anni della guerra, è stata raccontata da Isella come «città fantastica, gorgo di fremiti sordi», il cui cuore era la cattedra occupata da Contini sin dal ‘38. Da lì sarebbero nati i famosi due volumi dei Poeti del Duecento, una sorta di laboratorio per giovani filologi. E Contini per quei ragazzi non fu solo un modello di filologo e di critico”.

 

Poi il dopoguerra e gli anni successivi, per i quali Isella traccia questo amaro bilancio: ”Le cose si sono rivelate più ingannevoli di quanto ci portassero a credere le nostre illusioni di probità e di impegno, morale e intellettuale. Un inganno che è diventato manifesto in questi ultimi tempi”.

L’intervistatore incalza: ”Nel dopoguerra quali erano i segnali di speranza per un giovane studioso?” Isella risponde: ”è stato un grande momento per la cultura italiana. Pensi quali maestri c’erano, per esempio, solo a Firenze: Pasquali, Migliorini, Devoto, Nencioni, Contini, Garin. E c’erano poi punti di riferimento come Dionisotti… Oggi colpisce il mutamento di livello. Dobbiamo chiederci: che cosa è avvenuto? Qual è la causa di questo spaventoso abbassamento dei valori per cui dei pigmei possono essere considerati giganti?”

 

I valori si sono abbassati tanto che i pigmei possono essere considerati giganti. Stai attento, caro Direttore, abbiamo cominciato il nostro colloquio ricordando la scomparsa dei grandi: Pasolini, Calvino, Sciascia… e l’inadeguatezza degli scrittori d’oggi; ma qui non è di loro che si tratta: Isella parla di tutti. Ora voglio dirti, in tutta franchezza, che nutro per lui una straordinaria ammirazione, e forse capiterà l’occasione per raccontare pubblicamente del rarissimo dono che mi ha fatto, ma cuss’abi mi sighit a zumiai in is ciorbeddus. È come un dispositivo di sicurezza che segnala un’anomalia o una carenza; un’incompletezza del ragionamento, in questo caso.

 

A me sembra che manchino le grandi masse la cui irruzione nella storia, nella storia culturale (scolastica e universitaria) italiana a partire dal secondo dopoguerra ha segnato la differenza fra il mondo del prima e quello dell’oggi. Non voglio, dicendo questo, sottovalutare gli aspetti etici dei quali parlano Segre e Isella: dico semplicemente che se il mondo fosse rimasto di pochi quegli aspetti avrebbero avuto minore incidenza o, almeno, una minore visibilità.

 

Ma noi abbiamo scelto di navigare in più vasti mari e con più numerose compagnie. E dico noi per assumermi la parte di responsabilità che mi spetta.

Se dovessimo riassumere per punti parlerei innanzi tutto della riforma della scuola media che risale agli anni sessanta e, subito dopo, citerei  la nascita e l’affermazione di un grande movimento di idee, democratico e progressista, nel quale variamente si disponevano le aspirazioni dei partiti della sinistra comunista e socialista, quelle dei raggruppamenti allora detti extraparlamentari e quelle del mondo cattolico più avanzato. Personalmente sono convinto che don Milani sia stato  il vero maestro di una generazione che non ha poi tradito se stessa ma ha continuato seriamente e, se così posso dire, disciplinatamente, a testimoniare il valore delle idee, applicandole e aggiornandole nel corso del tempo e sulla base delle diverse esperienze della vita. La scuola di Barbiana ha insegnato che tutti possono e devono imparare: in primo luogo a parlare, per non essere ingannati da chi possiede più parole di te.

 

Te la ricordi, Direttore, la Sardegna degli anni sessanta? Come possiamo provare a spiegarla ai lettori più giovani? Quanti erano i ragazzi e le ragazze che frequentavano la scuola? Quanti arrivavano all’Università? La maggior parte erano destinati al lavoro manuale; una percentuale non trascurabile delle giovani donne finiva a far la serva (questa era la definizione comune) in Continente. Ci penso spesso, riconoscendo i loro occhi negli occhi delle figlie, oggi studentesse dell’Università alle quali cerchiamo di spiegare i rudimenti della filologia e della letteratura, come Contini faceva a Friburgo, ”città fantastica, gorgo di fremiti sordi”, per i suoi pochi ed eletti allievi, distillati attraverso un processo di selezione che aveva scartato migliaia di individui.

 

Era una nobilissima ipotesi che ha portato a risultati di eccellenza. Noi ne abbiamo seguito un’altra, prevedendo che non saremo mai arrivati a quegli altissimi livelli e tuttavia convinti che sommando ai valori della cultura quelli dell’umanità avremmo comunque potuto conseguire un non meno significativo risultato ideale.

 

Non voglio fare colore giornalistico, però non posso fare a meno di ricordare che quando ho avuto il mio primo incarico di insegnamento, nel 1970 e in un paesino di montagna dove nell’inverno scendeva la neve, arrivando alle 8 del mattino incontravo una processione di donne che tornavano con le ceste dei panni lavati nel fiume. Tra loro Allenedda, che avrei incontrato pochi minuti dopo nell’aula scolastica, con le mani rosse e gonfie per il freddo dell’acqua che scorreva lungo i fianchi della montagna. A lei ho dedicato le mie prime cure di insegnante, con la stessa intensità, e il rispetto, da sempre destinati agli studenti ”destinati a formare le future classi dirigenti”. Come fosse una principessa nel Collegio di Poggio Imperiale.

 

Noi non pensavamo alle ”future classi dirigenti”, pensavamo a un diverso progetto di umanità dove, a prescindere dalla professione e dal ruolo sociale, ciascuno avesse il diritto di sapere e di capire. Per questa convinzione, senza retorica e senza demagogia voglio dirti che, passati forse trent’anni, ancora ricordo con emozione una discussione avuta, in un corso delle 150 ore (anche quei corsi li avevamo fortemente voluti, e ottenuti con intense battaglie politiche e sindacali), con l’idraulico di via Portoscalas, a proposito della teoria del rispecchiamento. Non avrei provato la stessa tensione intellettuale se ne avessi discusso direttamente con György Lukás.

 

Atteggiamento da vecchio ”comunista arraggiato”, potrai forse dire usando le parole di Andrea Camilleri. È possibile, e non me ne lamento, semplicemente aggiungo: atteggiamento da sardista, convinto, come Beppe Fenoglio per le sue Langhe, che la causa di tutti i mali è ”la forte ignoranza che abbiamo”. Era tempo di finirla, con questa storia dei sardi che non sanno parlare l’italiano, che non capiscono, chi serbinti sceti a tragai pesus, comenti su molenti, o a uccidere e farsi uccidere nel fango delle trincee, dichiarati eroi da una patria che il giorno dopo è pronta a metterli in galera, se rivendicano il possesso delle terre.

 

Adesso quella storia è finita e la Sardegna è una delle regioni italiane con la percentuale più elevata di scrittori rispetto al numero di abitanti. Me ne devo lamentare proprio io? Non mi passa neanche per la mente e, come diceva Sciascia, sono ”mafiusu” degli scrittori, provo soddisfazione per il successo che raccolgono sul piano nazionale e internazionale.

 

Naturalmente tutto ciò non mi impedisce di leggere e valutare, di esprimere giudizi, di confrontare questo con quello, i moderni con gli antichi, i giallisti sardi con i bolognesi, il giallo contemporaneo con il classico europeo o con l’americano. Come abitualmente faccio, con interlocutori sardi, italiani ed europei. E con piena soddisfazione, sentendomi, per la piccola parte che mi spetta, attore di questa trasformazione: mi pare che abbiamo fatto un salto straordinario rispetto ai tempi in cui nei consessi internazionali si discuteva per stabilire se i sardi fossero irrimediabilmente idioti o se in alcuno di essi potesse allignare un debole segnale d’intelligenza.

 

Gli altri problemi, quelli che sollevi nella tua risposta quando parli dell’atteggiamento di alcuni fra i nostri scrittori, sono di natura strettamente politica (ma della politichetta decaduta dei nostri giorni):  attengono alla volontà di comandare, di prepotentemente imporre il proprio volere agli altri, di considerare come fastidiosi ingombri le sacre regole della democrazia. E, alla fine, di accaparrarsi – poiché tutti i salmi finiscono in gloria – una quota consistente del pubblico peculio (sa pilla de totus): per sé e per i propri sodali, per quanti sono collusi in un discutibile disegno che viene descritto come la modernizzazione della Sardegna.

 

Ma di ciò non vorrei parlare, oggi, in una pagina che si è illuminata per il nome esplicitamente citato di don Milani, e per gli altri non detti ma pensati con intensità, primo fra tutti quello del nostro conterraneo Antonio Gramsci.

 

A si torrai a intendi cun saludi.