Fiorenzo Serra è stato e rimane  tutt’oggi il più grande regista etnografico della Sardegna. Il suo nome è legato ad una produzione documentaristica che si è concentrata sui temi del lavoro, nella dialettica tra l’arcaismo di una società basata su rapporti di forze antichi e il “progresso” portato nell’isola prima dalla filiera mineraria e poi dai primi impianti industriali.


In anni cruciali per la società italiana, quelli del boom economico, realizza il suo unico lungometraggio documentario, L’ultimo pugno di terra
(1965).
Un opera dalla vocazione scomoda, che avrà vita difficile, tanto da essere scorporata a partire dal taglio del negativo per mano dello stesso regista, esasperato per la “congiura del silenzio” che si abbatte sul film, originariamente “su commissione” per l’Assessorato alla rinascita della Regione, oggetto di livori e polemiche sin dalla sua anteprima al cospetto dei “committenti” istituzionali, per il suo sguardo critico sulla realtà sarda. Uno sguardo che non arretra di fronte alla desolazione che l’indagine svela. Nessun facile ottimismo che possa rendere l’opera utile vettore di propaganda, ma il tentativo, sincero e sofferto, di un’indagine al cuore delle contraddizioni della nostra terra.
Sembra incredibile che ancora nel 1964 in Sardegna esistessero situazioni come quelle raccontate nel film.

 

Come quella  dello stagno di Cabras, prima possedimento della Corona spagnola poi, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ‘60, proprietà della famiglia Carta.
Le peschiere di Cabras a lungo ebbero fama di essere quelle più abbondanti e redditizie di tutta Europa.


Lo stagno di Cabras e quello di Santa Giusta vennero ceduti dal Re Filippo IV di Spagna ai banchieri Vivaldi di Genova nel ‘600. Nel 1853, attraverso la stipula di un atto pubblico di compravendita tra privati, Salvatore Carta li acquistò dagli eredi Vivaldi. All’epoca della realizzazione del film, Cabras, a tutti gli effetti “un feudo d’acqua”, traeva ogni sostentamento dalla pesca nello stagno, ove un rigido ordinamento gerarchico vedeva, all’ultimo gradino, i palamitai, pescatori poverissimi su delle barche di canne, il cui lavoro consentiva loro solo il sostentamento per continuare a lavorare, mentre i bogheris
, la maggior parte dei pescatori dello stagno, dovevano devolvere al padrone metà del loro pescato giornaliero. Servi della gleba, negli anni ’60, in una regione facente parte di uno stato che doveva, e dovrebbe essere, una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.


I palamitai non potevano usare le reti, ma solo le fiocine; le loro barche, chiamate fassoni, erano estremamente rudimentali, fatte di canne.

Un lavoro duro, da ultimi della terra, come quello dei pastori dell’interno
Lungo le strade sterrate, la macchina da presa di Serra segue il cammino del pastore e delle sue greggi. Una vita grama, faticosa, da nomade, che si scontra con quella degli stanziali. Strade e strade da percorrere, per arrivare all’acqua, ai pascoli, ad un riposo pesante sulla dura terra.


Assistiamo ai funerali dell’ucciso, vittima di faida o di un regolamento di conti, il pianto antico delle donne che vegliano il morto.
Alla grande, antica festa al centro dell’isola, in cui confluiscono abitanti da tutti i paesi nel mese della mietitura del grano, per celebrare il santo ma anche per scambiare le proprie merci, nella celebrazione dell’abilità dei cavalieri.
Alla decadenza di Carbonia, città nata attorno alle miniere durante il fascismo, fonte di carbone per la “patria” tutta, nella quale, con la speranza di una vita più dignitosa e di una retribuzione accorreranno uomini da ogni parte della Sardegna. Uomini che si ritroveranno senza più nulla, quando il costo del carbone isolano non sarà più competitivo sul mercato.
Molti allora scelgono di emigrare, per la necessità di sostenere le proprie famiglie, e nella ricerca di un lavoro dignitoso, ovunque questa ricerca possa spingerli, lontano dalla terra dove sono nati, impoverita dall’egoismo dei pochi possidenti, nel mantenimento di uno status quo che sembra immutabile.

 

Tutti questi aspetti della vita nell’isola, così ricca di differenze nelle sue popolazioni, accomunate dalle difficoltà e da un senso della vita “che è cosa dura e grave”, trovano posto nel film di Serra. Un’opera che unisce alla bellezza delle immagini, all’espressività colta nei volti e nei gesti delle gente, un commento parlato che trae forza delle parole di alcuni tra i maggiori intellettuali che la Sardegna ricorda, che più di altri hanno sondato le complessità e le contraddizioni della nostra cultura: da Antonio Pigliaru a Salvatore Cambosu, da Benvenuto Lobina a Giuseppe Fiori, fino a Emilio Lussu.

 

Il film, con un paziente lavoro di tre anni, è stato restaurato dalla Cineteca Sarda – Società Umanitaria nei  laboratori dell’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, e presentato, con grande successo, nel corso del festival bolognese Il Cinema Ritrovato 2008. Un recente passaggio dell’opera ha avuto luogo nel corso di “Zavattini Sottotraccia” una rassegna e un convegno dedicati dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico a Cesare Zavattini, che fu consulente artistico del film.

 

La Cineteca Sarda – Società Umanitaria intanto, pur tra mille difficoltà e disagi dovuti alla scarsissima sensibilità delle istituzioni verso il Cinema sardo e alla mancanza di fondi, continua la sua battaglia per riuscire a realizzare un progetto che stava a cuore a Fiorenzo Serra, che fino alla fine dei suoi giorni ci lavorò: costituire, nella raccolta degli innumerevoli documentari girati da Serra ( e da altri autori), un’enciclopedia audiovisiva della Sardegna, un grande affresco corale che preservi e diffonda la nostra storia, che documenti le trasformazioni del territorio, la cultura del nostro popolo, la dignità del lavoro di generazioni di sardi. Una storia che varrebbe la pena di conoscere, ricordare e difendere, nella coscienza che “Chi è senza memoria è senza futuro”.