Dopo il successo di Treulababbu il giovane regista allarga il discorso: la  lingua sarda e le nuove generazioni, le storie coinvolgenti, le difficoltà e le speranze del profondo

 

Accolto positivamente da critica e pubblico, in questi giorni è nelle sale cinematografiche della Sardegna Treulababbu – Le ragioni dei bambini, primo film del regista ogliastrino Simone Contu. Si articola in due episodi, “Sa régula” e “Su molenti de Oramala”, e vede come protagonisti assoluti i bambini e il loro difficile rapporto con il disincantato mondo degli adulti. Nel primo il protagonista è Efisio cui viene regalata una capretta che finirà per essere macellata per il pranzo di Natale. Nel secondo Vincenzo che si trasferisce in Sardegna da Roma quando al padre insegnante viene assegnata la cattedra di una scuola media in un paesino di montagna. Il racconto, prima diario di crescita poi viaggio avventuroso, si snoda in una Sardegna magica e incantata che fa da meraviglioso scenario alle vicende dei due protagonisti. La realizzazione dell’intero progetto è stata piuttosto impegnativa e lungamente sofferta, portata avanti con decisione e caparbietà dal giovane regista che ne ha curato personalmente diversi aspetti.

 

– Partiamo dal titolo del film: cosa significa Treulababbu?

 

Mentre si girava una notturna del secondo episodio, nel giugno 2009, Daniela e Sergio, gli attori di Barisardo che interpretano Brulla e Bellu, apostrofarono il piccolo Vincenzo con un termine non previsto nei dialoghi di scena: treulalogu malu! Non avendo mai sentito questo termine, pur intuendone il senso, chiesi loro conto del significato: mi spiegarono che si appellavano così i bambini discoli e monelli, quelli che creano scompiglio e disordine ovunque passino. Il termine mi piacque e decisi di tenerlo nei dialoghi di scena. Quando poi nel mese di agosto, a Brentonico, sulle Dolomiti, lavorai al montaggio del film con David Tomasini, riflettendo su come legare il primo episodio con il secondo, gli raccontai tutta una serie di aneddoti legati alle riprese: ricordi, suggestioni, pettegolezzi, attese etc. alla ricerca di un filo rosso che ci portasse dritti dritti al cuore del film, a coglierne l’anima. Fu così che gli parlai anche del termine treulalogu. Me ne chiese il significato e dal luogo al babbo il passo fu breve…

 

-Tutto nasce da alcuni episodi della tua infanzia in Ogliastra… Quanto c’è di autobiografico e in cosa ti sei invece discostato dalla realtà?

 

In Sa régula furono fatali i riferimenti al mio vissuto personale: la tragedia del capretto regalatoci quando eravamo bambini e la grande bugia raccontataci pur di nascondere la cruda verità, io e mia sorella Arianna l’abbiamo davvero vissuta in prima persona. E poi il riferimento alla cultura agro-pastorale: sono figlio, nipote e parente di caprari, io stesso lo sono stato, anche se per un breve periodo…

 

-Vuoi raccontarci qualche aneddoto particolare o divertente legato al film?

 

Nell’ideare la scena del furto dell’asino, motore di tutto il secondo episodio, mi sono ispirato a una brutta avventura accadutami da ragazzino. Dopo avere trascorso l’infanzia in Lombardia, dove la mia famiglia era emigrata, all’età di quattordici anni, mi ritrovai catapultato nella realtà ruspante di Jerzu, il mio paese d’origine. Ai tempi frequentavo una banda di monelli del paese, nella quale faticavo a integrarmi. Una delle differenze più marcate tra noi era la lingua: loro parlavano in sardo ed io in italiano. Capivo bene il sardo perché i miei genitori lo parlavano tra loro, ma non riuscivo a esprimermi bene perché ero cresciuto fuori dall’isola e in famiglia si parlava l’italiano. Un pomeriggio, fui accusato d’aver sparlato di un fattaccio su cui avrei dovuto tenere la bocca chiusa, e il gruppo pensò di punirmi facendomi travolgere dall’asino che ci seguiva nelle nostre scorribande. Inutile dire che, appena vista la mala parata, me la diedi a gambe e sparii dalla circolazione per un bel po’ di tempo!

 

-Hai scelto di utilizzare la lingua sarda, con sottotitoli in italiano, per gran parte del film: una scelta coraggiosa.

 

In Sa régula la trasmissione della cultura e della lingua sarda è un tema centrale: come trasferire alle future generazioni (la maggior parte dei bambini abitanti in Sardegna è di madrelingua italiana!) il corpus della cultura sarda? Il film risponde al quesito non tanto per fornire soluzioni di politica linguistica o per creare un vademecum d’insegnamento a uso e consumo di famiglie e genitori… L’intento è piuttosto quello di far riflettere, raccontando gli scenari sociali e familiari in cui nascono e si sviluppano queste urgenze pedagogiche, mettendo in guardia lo spettatore dalle distorsioni educative derivanti da falsi miti identitari: la Sardegna dei sardi non ha bisogno di far crescere e educare figli folk. In Su molenti de Oramala il bilinguismo fornisce una rappresentazione sociolinguistica della Sardegna interna in cui l’utilizzo della variante di lingua sarda, è ancora piuttosto diffusa. La storia offre lo spunto per rappresentare l’attuale divulgazione dell’uso delle varianti dialettali sarde e il rapporto tra diverse generazioni nell’utilizzo delle stesse. Inoltre, a differenza del primo episodio, la scelta della lingua sarda in alcune parti del film, è richiesta dall’esigenza politica di rafforzare e testimoniare la validità espressiva e affabulatoria della lingua sarda.

 

– Quanto è importante quindi l’utilizzo del sardo nel significato complessivo del film?

 

Trovo importante fare delle scelte anche nel campo della politica linguistica e culturale di questa terra. E nel momento in cui il sardo ha una scarsa presenza in ambito familiare, letterario, il cinema e i mass media rivestono un ruolo strategico nel conservare e ampliare gli ambienti sardofoni cioè contesti in cui i bambini e le giovani generazioni possano avere occasione di incontrare la lingua sarda.

 

– Ti sei occupato interamente della produzione e della distribuzione del film. Che difficoltà hai incontrato?

 

Sì, ho fatto tutto da solo, sotto quest’aspetto. E non di certo perché sia un solitario, schivo e burbero, anzi… Credo nel lavoro di squadra. E se questo film emoziona, è perché tante persone hanno contribuito alla sua realizzazione. L’ho prodotto e distribuito da solo semplicemente perché non ho trovato nessun produttore disposto a scommettere su Treulababbu. Le difficoltà sono principalmente legate al reperimento dei fondi. Tant’è che, a riprese ultimate, per terminare e far uscire il film ho dovuto investire una cifra rilevante di tasca mia, come un vero produttore. Cosa assai rara nel cinema italiano d’oggi.

 

. Secondo te esiste e possiamo parlare di un vero e proprio cinema sardo, un cinema che restituisce identità perché costruisce un’immagine vera, aderente il più possibile alla realtà?

 

Non sono un critico cinematografico. Spetta a loro teorizzare e formulare categorie di lettura dei fenomeni culturali e artistici. Da parte mia posso solo dire che parlo di ciò che conosco. È questo il segreto per affabulare il proprio pubblico. Ed io conosco bene la Sardegna e il suo popolo.

 

– Quali sono i tuoi progetti futuri? Un nuovo film ambientato in Sardegna?

 

Sì, sicuramente un nuovo film ambientato in Sardegna. Vorrei trovare un bravo produttore che sappia supportarmi e accompagnarmi nel nuovo viaggio che mi attende. Ho una storia che mi porto dentro da una decina d’anni. Il tema riguarda il sequestro di persona in Sardegna. Una storia molto forte, di taglio drammatico.