Giovanni Casula, educatore professionale da circa vent’anni, lavora (raro esempio in Italia e primo in Sardegna) nel Servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’opedale Santissima Trinità di Cagliari dal2008. Ha inoltre lavorato come educatore di strada,  nei centri giovanili, nelle comunità per giovani in misura penale, oltre che in numerosi altri progetti.. Educatore per vocazione, si divide fra famiglia, lavoro in ospedale e coordinamento di una comunità per minori. Autore di un interessante libro verità per la Unicopli Edizioni – in commercio dal prossimo mese – di storie  ambientate nel suo caro Spdc, con la presentazione di un celebre cantante.

 

-Giovanni, come ha deciso di fare l’educatore?

 

Mi sono formato a metà degli anni Novanta presso le scuole professionali, gestite dalle cosiddette Usl: corsi triennali finanziati dalla Regione e dall’Unione europea, con il patrocinio dell’Università che prevedevano un cospicuo numero di ore di didattica e di tirocinio. Ero approdato al corso quasi per caso, all’età di 24 anni, dopo studi da ragioniere ad Aritzo, il mio paese d’origine. La spinta iniziale è stata lavorativa. Avevo voglia di una stabilità economica e mi proposero questo percorso. In realtà, finito il corso, non ho mai smesso di sperimentare, conoscere, osservare come un antropologo errante, il disagio, la ricchezza che ogni persona può esprimere per emanciparsi dai percorsi intricati che si trova a dover vivere.

 

– Perché la difficile strada della psichiatria?

 

È un ritorno alle origini, se non altro della mia storia di educatore. Il vero punto di svolta lo devo al manicomio di Villa Clara di Cagliari. La nostra scuola era ubicata all’interno di un padiglione di questa enorme struttura. Ricordo ancora con tristezza il mio primo giorno di allievo tirocinante: vedevo uomini nudi buttati nei corridoi del padiglione, senza assistenza, spesso sdraiati sulle loro stesse urine e feci. Gli odori del manicomio non li potrò mai dimenticare. Era la prova del nove: o mollavi o diventavi un vero educatore. Cominciai a dedicarmi con impegno, curiosità, passione pura a questa varia umanità cosiddetta diversa da cui in realtà traevo, ogni giorno, nuova forza, motivazione e persino entusiasmo verso il mio lavoro di cura. Sentivo quotidianamente che il mio apporto fatto di ascolto, tenacia, attenzione alle storie, coinvolgimento dei pazienti in semplici attività socio occupazionali aveva in queste persone un forte impatto positivo, che in qualche modo metteva tra parentesi la malattia.

 

 – Com’è la situazione della psichiatria in Sardegna?

 

Posso dire che, soprattutto negli ultimi otto anni, si sono fatti molti passi in avanti per la salute mentale. Abbiamo aggiornato una legislazione ferma da vent’anni, abbiamo visto nascere esperienze interessanti di ‘abitare assistito’ (gruppi di convivenza in normali appartamenti, con supporto a vari livelli assistenziali), ‘abitare condiviso’ (convivenza tra persone con e senza disturbo), inserimenti di persone in nuove strutture comunitarie, alternative agli Opg, Ospedali psichiatrici giudiziari (una vergogna che finalmente si intende abolire), l’attivazione delle Borse lavoro (inserimenti di apprendistato retribuiti), di una più capillare assistenza domiciliare oltre a tanti piccoli e grandi progetti di riabilitazione attraverso la lettura, l’arte, il teatro, la musica. Una peculiarità sarda è sicuramente la straordinaria capacità del volontariato e delle associazioni dei familiari di rispondere – a volte meglio del servizio pubblico – ai bisogni complessi di queste persone. Detto ciò, siamo ancora lontani dagli standard riferiti nei parametri delle linee guida nazionali. C’è ancora tanto da fare! Ma sono ottimista.

 

– Cosa si dovrebbe fare per migliorare?

 

Nella nostra isola, come un po’ in tutta Italia, si dovrebbe cambiare il modo di pensare, legato a un’idea della malattia mentale come etichetta, come fatto statistico, nosografico, farmacologico. E invece in educazione e in riabilitazione psichiatrica non dovrebbero essere ammesse categorizzazioni, nosografie. Ogni ragazzo in difficoltà, così come ogni schizofrenico, è una persona prima di essere una malattia. Se le scienze mediche, ma non solo, non approdano a questo paradigma rimarremo lontani dalla comprensione dei problemi profondi delle persone.  Nel concreto chiederei a tutti coloro che dentro e fuori i servizi sono competenti, di elaborare idee, progetti, di contaminarli con altre discipline e forme di espressività. La parola chiave è creatività. Perché dalla creatività nascono sempre cose magnifiche.

 

 – Lei ha scritto un libro importante,  Benvenuto in Psichiatria. Ce ne parli…

 

Scrivo ogni giorno sul mio taccuino le principali cose che sento e vivo nel mio lavoro. In vent’anni di professione ho imparato una cosa: la narrazione, la ricostruzione della storia fatta insieme alla persona che incontro ogni giorno è sempre un evento unico, prezioso. Nel racconto riesco a trovare le connessioni possibili, delle ipotesi, per provare a dare un senso al disagio. Da questi appunti sono venute alla luce una serie di caleidoscopiche situazioni, a volte bizzarre, altre tenere, altre ancora drammatiche, dove a rendersi autentici, nella loro unicità, sono i cosiddetti pazienti, a cui ho voluto dare merito della loro straordinaria umanità. Un piccolo estratto delle tante storie di vita, spesso sofferta, che ogni giorno raccolgo nel mio lavoro di sostegno e cura, sono diventate Benvenuto in Psichiatria: storie reali, di persone vere, anche se presentate con nomi artefatti.

 

– Vuole svelare chi è il misterioso cantante che ha scritto la presentazione del libro?

 

No, diciamo solo che è un menestrello dalla folta chioma riccia.