Viaggiare con l’Arst, in Sardegna, è un’esperienza catartica. Cambiano i mezzi, i sedili, i biglietti; ma la strada, è sempre la stessa. Dal finestrino, colline sinuose e piane camaleontiche (gialle-verdi-gialle), punteggiate da gruppi di greggi al pascolo; e poi, muretti a secco che si inseguono, si incrociano, e poi si perdono nell’infinito.
Storditi dalle curve, siamo già in montagna; il pullman accosta, si ferma, scende un passeggero, ne sale un altro; solo un minuto, e il gigante riprende a serpeggiare.
Dall’Ottocento a oggi, molte cose sono cambiate, e neanche una, in questa Sardegna-quasi-un-continente. Non abbiamo i treni à grande vitesse, e probabilmente non li avremo mai; impiegheremo sempre due giorni per arrivare, con i mezzi pubblici, a Sant’Antioco da La Maddalena: ma in fondo, cosa importa. Lo sappiamo che la comodità e il tempo, in questa strana isola, non sono mai esistiti.
Piuttosto, mi chiedo se esisterà sempre il paesaggio.
Questa realtà sfuggente eppure così concreta, unica e molteplice, che riconosciamo nella quercia, nel nuraghe, nel muro a secco, nel gregge. E che in un attimo rischia di scomparire: dietro l’ombra di una pala eolica, sotto il braccio di un mezzo meccanico o della crisi economica che strozza i pastori.
Dal finestrino, mi fermo a pensare come sarebbe un prato senza pecore, una cima senza un nuraghe, una collina senza un albero piegato dal vento. Eppure, io non voglio proprio immaginarmela una Sardegna diversa da quella che ho sempre conosciuto, una Sardegna, diversa da quella di un viaggio in Arst.