La visita di leva, meglio nota come su tirazu era, sino alla fine degli anni Sessanta, una delle più belle attrattive dei paesi del Nuorese, in particolare di Orune, che viveva questo passaggio come un magico momento di felicità.

I giovani che dovevano sottoporsi alla visita di leva dovevano recarsi a Bitti, sede di mandamento e di pretura e qui venivano visitati e dichiarati idonei, rivedibili o riformati. Una seconda visita veniva successivamente fatta a Cagliari e qui si concludeva la selezione,  prima di partire per il servizio militare.

 

Su tirazu era un momento di grande importanza simbolica per il giovane, che vedeva riconosciuto il proprio ruolo nella società e con il successivo servizio militare segnava uno spartiacque fondamentale della vita. Dopo il servizio militare si  acquisiva il diritto non scritto de si tirare a banna, di rendersi autonomo con gregge, redditi e oneri propri. Per altri, questo momento sanciva la data dalla quale ci si poteva sposare. Ecco perché tanti  giovani che sin dagli otto o nove anni battevano la campagna, spesso senza aver mai indossato un pantalone nuovo e senza essere mai usciti dal paese, non vedevano l’ora di provare questa autentica iniziazione.

 

La festa durava tre giorni, durante i quali si dava prova di tutto quello di cui si era capaci. Già diversi mesi prima ognuno pensava a raggranellare qualche soldo da spendere, magari raccogliendo spezzoni di sughero da vendere o ingraziandosi parenti e amici. Risparmiare era impossibile, perché sino a quell’età i soldi erano pressoché sconosciuti.  Ma per quel giorno la famiglia riusciva sempre a procurare quanto era necessario, altrimenti che festa sarebbe stata?

Il giorno fatale ci si incontrava di buon mattino e a gruppi di una diecina si iniziava la festa. L’abito era rigorosamente nuovo. Papassedda, il sarto del velluto, lavorava  giorno e notte per accontentare tutti e faceva fare gli straordinari al suo dischente Buffone. Il giorno si indossavano finalmente sas iscarpas  de cromo  e i cambales  nuovi, meglio se a butones. La camicia era bianca, limpida, almeno il primo giorno. Anche su bonete era nuovo di zecca e i fratelli Demurtas di Jerzu che li fabbricavano erano gli esclusivisti del modello orunese, con fibbietta su retro.

 

Ciascuno acquistava una bottiglia di liquore, anisetta, mandorla amara, ferrochina o vermuth e la inseriva in una tasca della giacca. Senza toglierla dalla tasca, si versava il liquore in piccolissimi bicchieri di vetro lavorato e lo si offriva a quanti si incontravano per la strada. Ci si incamminava per le strade del paese mettendosi le mani sulle spalle e intonando il canto a tenore. Ogni tanto ci si fermava per ballare e per verificare che le bottiglie non fossero troppo piene.

Quando si arrivava nelle piazze ci si fermava e iniziavano le prove di abilità. La principale era s’strumpa, una prova di forza e di abilità insieme. C’erano tre modalità di gherrare a istrumpa, ed erano a tzinta, a chintu e a brussu.

 

La più comune era quella a tzinta, dove i gherradores si afferravano rispettivamente per la cintola badando a che ciascuno avesse un braccio sotto e uno sopra quelli dell’avversario, in modo da non dare o ricevere vantaggio nella presa. Questo modo di gherrare dava modo di utilizzare meglio l’elasticità del corpo e di poter vincere non solo con la forza ma anche con l’astuzia e l’agilità. Questi duelli duravano anche ore, con momenti esaltanti in cui un gherradore sollevava l’avversario, lo faceva roteare e tendendo la gamba cercava di atterrarlo, non sempre con esito favorevole. I bassi tarchiati spadroneggiavano, aiutati da un baricentro spesso alto poco più di mezzo metro. Nella presa a chintu e a brussu ci si stringeva nella vita o nelle braccia e si sfruttavano meglio le doti di forza: le fasi duravano pochi secondi o al massimo qualche minuto. I grandi gherradores venivano ricordati anche per decenni.

 

Altra prova era il salto in alto. Due o tre giovani si sfilavano le cinghie e unendole insieme le tendevano a formare un’asta, oltre la quale i saltatori dovevano volare. Per essere più leggeri, quasi tutti si toglievano i cambales, quelli più bravi potevano gareggiare anche con essi. Altra prova era quella di appoggiarsi ad un muro di una casa e verificare a quale altezza arrivava la propria testa, dopo di che si spiccava un salto per verificare se con il piede si toccava l’altezza della testa. I capottamenti a testa in giù non erano affatto rari.

Le partite infinite di morra comprendevano quattro giocatori più due che contavano i punti e facevano da arbitri. In questo gioco si raggiungevano momenti di alta tensione emotiva, perché la tentazione di iscanare, nascondere un dito, o di giocare sa murra puntada  veniva sanzionata da avvertimenti e richiami alla correttezza molto decisi.  La giornata si trascorreva in totale frenesia di gioco, di canto e di allegria e solo a notte fonda, stremati più dalla abbondante bevuta che da altro, si andava a riposare. A memoria d’uomo, non si ricorda un solo fatto increscioso o un semplice litigio in queste giornate. Era la festa dell’allegria. Il secondo giorno si andava Bitti. Era un giorno epico, perché tutto quello che si era fatto il giorno prima fra amici del paese, quel giorno bisognava farlo con e contro i bittesi, eterni antagonisti e non sempre amici.

 

Dopo le visite mediche i migliori gherradores di Bitti sfidavano quelli di Orune e viceversa e la posta in gioco era innanzitutto l’onore, dopo venivano le casse di birra o di spuma e le bottiglie di liquore. Il vino era del tutto ignorato. Una frase di troppo, un punto arrogantadu, un insulto potevano significare lo scoppio di una scintilla che spesso ha lasciato sul selciato feriti e contusi a decine. Verso sera con l’ultimo postale si tornava ad Orune, con tante storie da raccontare e qualche punto da suturare. Qualcuno tornava a piedi, un po’ per risparmiare i soldi del viaggio, un po’ perché in fondo dodici chilometri non erano poi tanti e se si facevano truvando qualche bestia incontrata per strada si faceva quanto mai in fretta.  Nel ricordo di tanti rimangono i nomi di coloro che sono tornati con juvos  e con cheddas de vacas.  Non a caso alcuni cantavano:

 

Trimbu baratzelladu bitichesu

si non tentas su juvu custu iverru

dae s’istalla ti che lu vocamus

ca fachimus sa crae ’e filuferru….

 

Ma quel giorno a Bitti non tutti avevano paura dei tzullos di Orune, ma anzi li aspettavano con ansia, ed erano i baristi e i negozi di biancheria perché quel giorno si vendevano in abbondanza due cose: bibite e fazzoletti. Delle bibite abbiamo già detto, mentre è necessario sapere che ciascun giovane doveva portare quanti più fazzoletti poteva, da regalare alle ragazze del paese. Ma non tutti erano abilitati a portare i fazzoletti. I riformati, sos miserabiles, infatti, non potevano fregiarsi dei fazzoletti e il terzo giorno, quello di fine festa da trascorrere ad Orune, essi  erano quasi emarginati, non degni di continuare a festeggiare con coloro che erano stati dichiarati abiles  arruolados. Il cantadore intonava:

 

Abile arruoladu m’an bocadu

a balla ch’erte zutu s’orcu in fora

su capitanu chi m’at misuradu ….

 

Evidentemente il servizio militare non solleticava più di tanto.

 

Con i fazzoletti annodati l’uno sull’altro, infilati nella visiera del bonete e fatti scorrere nelle spalle, nella schiena e sino alle gambe, si iniziava il terzo giorno, durante il quale  si ripetevano i giochi, i canti  e le sfide dei giorni passati, ma dedicando più tempo al giro per le strade, in attesa che la propria bella si affacciasse e accettasse in dono il fazzoletto più bello. Le cugine, le sorelle, le vicine di casa quel giorno avevano un sorriso più luminoso del solito. I riformati inserivano nella visiera il foglio di congedo e camminavano un passo indietro rispetto a tutti gli altri, mentre i rivedibili, coloro che dovevano ripetere tutta la cerimonia l’anno successivo sapevano che loro i  tre giorni del prossimo anno li avrebbero vissuti da riserve, senza gloria.  Coloro che a Bitti avevano riportato vittorie nella strumpa venivano adulati dal cantadore:

 

Su bitichesu ’e samben romanu

chi ti nne ses vantadu àtera via

si colas a gherrare a su manzanu

a su sero nne contas balentia…

 

Verso sera le compagnie iniziavano a sfrangiarsi, qualcuno veniva riportato a casa e messo beatamente a dormire: la sua bottiglia era vuota da un pezzo. Qualcun altro faceva visita ai parenti a raccontare le balentie dei tre giorni, i più continuavano sino allo stremo. Tre giorni interi di festa, da protagonisti, da eroi, quando sarebbero mai ritornati? In quei tre giorni avevano vissuto in una dimensione epica la loro vita. Le frotte dei bambini che per tre giorni avevano seguito i gruppi in attesa di qualche caramella li avevano fatti sentire giganti, mentre gli sguardi degli adulti, che vedevano in loro la gioventù, la forza, la bellezza  dei loro eredi sognati, li avevano resi sacri. Quanto sarebbe stato bello se quei giorni avessero potuto continuare all’infinito…

 

Ma il risveglio del  quarto giorno diceva che tutto era finito. Prima dell’alba ognuno era già partito per il proprio ovile. Le mamme e sorelle  conservavano per la prossima festa del Carmelo o de Su Cossolu ciò che era rimasto dell’abito  e della camicia.

 

Nel primo pomeriggio, sotto un albero di leccio e vicino ad una fresca sorgente, aspettando che passasse quel residuo mal di testa, si pensava a quella ragazza che prendendo il fazzoletto aveva abbassato lo sguardo a guardare i propri piedi scalzi.

Sulla stessa quercia avevano riposato gli  antenati dopo essere ritornati da contese e feste ben più epiche.

Lontano il cane pastore abbaia, sono le tre ed è già ora di mungere.

 

 

 

S’URTIMU TIRAZU

 

“Su capitanu chi m’at mesuradu

a balla ch’eret zuttu s’orcu in fora”

cantavat Bore Goddi riformadu

ca s’istatura non bi fit ancora.

Ma Giuvanneddu   nat: “Pranta corazu,

mira ch’afirgonzados non ghiramus”:

cust’est sutzessu a s’ùrtimu tirazu

fat’in terra bitesa e lu contamus.

Fat’an istrumpa e ambos sono rutos

brillos senza bufare e po sa gana

a vantànnesi “semus de Orune!!”

Ana atzufadu e los an puru iscutos

ma dae Bitti contadu mi l’ana

son ghirados chin-d-unu voe a fune.