Mi capita spesso, per via della mia lunga sedimentazione giornalistica, di pensare al cronista di cronaca nera, al giovane che inizia la sua carriera in un giornale partendo dal primo gradino. Mai, però, mi torna la figura che trabocca da tanti film americani: quell’uomo male in arnese, tabaccoso, scalcagnato, sempre alla ricerca dello scoop, dello scandalo da passare per l’ultima edizione. Quando penso al cronista di cronaca nera di cui vorrei disporre se fossi il proprietario di un giornale, vedo Francesco Piras, della Nuova Sardegna, tutto l’opposto dello stereotipo americano. Cecio aveva una grande dignità fisica e morale. Avrebbe potuto, per le sue qualità, per le sue capacità professionali, lasciare la cronaca nera per scrivere articoli paludati da inviato speciale, o da columnist. Era rimasto ancorato alla cronaca nera per una vocazione culturale e di gusto. La sua scelta derivava dal lavorare in Barbagia, in questa terra difficile tutta pieghe e ingiustizie, ed era una scelta di ”servizio” che non voleva niente a che spartire con il potere.

 

Voleva dimostrare, Cecio, costruendosi un archivio prezioso, che la famosa ”zona delinquente” aveva una sua particolare identità sulla quale inciampavano spesso malamente i più famosi giornalisti delle grandi testate della Penisola. Faceva il suo lavoro con testardaggine, le notizie che pubblicava erano sicure, senza aggettivi. Mai che venisse ”bucato” da una testata concorrente. Era sempre il primo a sapere. Conosceva i pregi e i limiti di tutti i marescialli dei carabinieri e dei commissari di polizia. Direttamente o indirettamente conosceva tutti gli uomini della malavita barbaricina, del bosco e del sottobosco; sapeva chi era innocente e chi era colpevole e anche la sua concezione della colpevolezza di tanti uomini che incappavano nella rete della giustizia era profondamente umanizzata, si collocava in un retroterra difficile, contorto, dove bene e male non erano mai burocraticamente del tutto separati e contrapposti. Se fosse stato vanaglorioso, Cecio avrebbe potuto intervistare banditi famosi. Non lo volle mai fare. Dopo l’intervista di Sebastiano Satta e Gastone Chiesi a Derosas, Delogu e Angius, riteneva che quella esperienza, anche per la pulizia letteraria con la quale era stata condotta, non era da ripetere.

 

Cecio non si limitava a scrivere cronache, ad affastellare notizie. Conosceva troppo bene la sua terra, e sapeva darne una interpretazione senza abbandonarsi ai commenti, scegliendo tra notizia e notizia, ampliandone una e riducendone un’altra. Collegata alla sua difficile professione, aveva una rete di relazioni umane che gli fornivano rapidamente una capacità di giudizio non fondata su poveri ideologismi sociologici, ma su una esperienza consumata, su una bontà d’animo rara in chi è costretto tutti i giorni a districarsi in una professione terribilmente difficile e, in Barbagia, perfino pericolosa. La sua coscienza critica era la moglie, sempre disposta ad aiutarlo, portandolo a valorizzare un articolo, a limarlo e lasciandogli la libertà di seguire un’uscita, anche quando ciò comportava una prolungata assenza dalla famiglia. Conoscevo Cecio fin da ragazzo. Avevo con lui uno stretto legame d’affetto che mi riporta dolorose nostalgie.Il suo ”segretario”, se mi è consentito usare questo termine, era un popolano di Gavoi che lo accompagnava nelle frequenti trasferte per un conflitto a fuoco, per una rapina clamorosa. Cecio era sempre il primo ad arrivare ”sul luogo del delitto”, ed era il più sagace dei cronisti nel trasformare ogni triste vicenda della nostra delinquenza in un racconto doloroso della sua terra. Io credo che la sua vocazione per la cronaca nera gli discendesse per atavismo. Il padre, un uomo capace di dare la sua camicia al povero, sapeva tutto del labirinto barbaricino. Sapeva tutto e, quando poteva, metteva pace: qui si rivelava una esigenza culturale, una sete di conoscenza di una storia ingiustamente considerata ”minore”, della nostra storia vera di barbaricini. Cecio aveva preso da lui. Portava sulla pagina del quotidiano i moduli delle cronache orali del padre. Credo che questo suo indirizzo, anche per la morte precoce del padre, fosse consapevole; e del padre voleva continuare una sorta di volontariato teso a togliere dai guai chi aveva delle qualità per affermarsi, risanando i piedi inzoàos per ridarsi un elegante passo ”ambio”. Cecio è stato capace di trasformare un pastore che aveva qualche sasso nella scarpa nell’uomo di fiducia di una delle più grandi finanziarie italiane. Voleva dimostrare che un barbaricino, quando prende l’indirizzo giusto, quando viene immesso in un ambiente sano, dove circola cultura, è capace di diventare onesto e laborioso con tutus sos unores de su mundu. Nel raccontarmi questa vicenda, questa scommessa per la quale molti lo davano perdente, non si vantava; raccontava tutto con la sua solita ironia. ”Il mio amico inzoàu passato alla finanziaria ha imparato perfino a giocare in borsa ed ha soldi da parte. Io sono felice dell’affetto che mi dà. Non voglio altre ricompense. Sono un cronista e tale voglio rimanere –mi diceva– e voglio guardare dentro le cose, nel bene e nel male, e mi interessa rimanere pulito”. È difficile rendersi pienamente conto di quanto sia difficile rimanere ”pulito” ad un cronista di cronaca nera che opera in Barbagia e voglia rendere degna d’essere vissuta la sua professione. Ho detto che nutrivo una grande amicizia per Cecio. Spesso ho attinto al suo archivio per alcuni miei lavori. Ora penso a lui con una nostalgia che mi opprime. A volte lo trovavo stanco, distrutto da una notte passata in bianco per riannodare la biografia di un bandito. Ma il sorriso, l’ironia, la soddisfazione d’avere la coscienza a posto vincevano la stanchezza: anche quando si esponeva a qualche rischio. Talvolta le sue cronache mettevano di cattivo umore il potere, rischiavano di ribaltare l’indirizzo schematico di una inchiesta di polizia, costringevano funzionari stanchi e indaffarati ad abbandonare una pista. ”Tu devi andare più avanti”, gli dicevo. Mi rispondeva: ”Non mi piace la sociologia; il sociologo è troppo spesso un giornalista mascherato. Io credo, non d’essere arrivato, non si arriva mai, ma di aver perseguito un indirizzo che mi ha sempre soddisfatto.

 

Ho troppo rischiato, ma sono riuscito sempre a districarmi dai rovi che il potere mi ha posto talvolta sul sentiero”. Ho avuto l’ultima conversazione con Cecio alla ”corte” della Itria in un pomeriggio afoso. Cecio ironizzava sul male che lo stava distruggendo, giorno dopo giorno. Mi ci volle un grande sforzo per portare la conversazione su un altro terreno. ”Sai, Cecio –buttai giù d’improvviso– diceva un Tale molto celebrato che un cronista è spesso in grado di fare il prefetto del capoluogo”. ”Deus nde bardet. Prefetto? Io prefetto? Per carità. il cronista di cronaca nera può essere un mestiere orribile in Lombardia. In Barbagia, lasciatelo dire, è la professione più bella del mondo. Sei dentro, capisci, e non perché nel mondo c’è spazio, ca in su mundu b’at locu, ma perché assumi una dimensione, puoi percorrere sentieri che non tutti conoscono”. Lo accompagnai all’auto; mi trattenni per vederlo riempire il bagagliaio di serpillo e per avere da lui un abbraccio frettoloso di dispedida. Ecco, io racconto con molta tristezza queste antiche conversazioni con Cecio. Mi sembra d’essere ancora con lui, seduto su un muricciolo dell’Itria. E se il ricordo è sempre così nitido è perché non mi è mai capitato, in tanti anni di esperienza giornalistica, di trovare un cronista di nera capace di dare alla sua professione la dignità e il senso che Cecio vi aveva posto. Scrivo di questo grande amico con affetto, mentre ho sempre rifiutato di scrivere articoli celebrativi per personaggi della nostra disperata vicenda politica isolana.