Quando l’idea della morte diventava dolce compariva lei, l’acabbadora, con la presunzione di rendere la morte una realtà dolce. Acabbare in sardo significa portare a termine, finire. Le donne acabbadoras giungevano in tarda serata, a calar del sole, in casa del morituro. Chiudevano la porta e controllavano che nella stanza non ci fossero oggetti sacri, quali medagliette, croci, giacché si credeva che con la loro presenza avrebbero impedito all’anima di uscire dal corpo, prolungando l’agonia.
Si sedevano davanti al malato agonizzante, recitavano il rosario e per mezzo ”de unu matzolu”, in nome di Dio e per pietà, con un colpo secco vibrato alla testa o al cuore del malato, mettevano fine alla vita. Le acabbadoras, avvolte da un fazzoletto nero, lasciavano la casa del moribondo senza ricevere alcuna ricompensa e senza incontrare e salutare nessuno. Poco dopo, i familiari annunciavano la morte del parente e accendevano i ceri attorno al letto. La tradizione popolare personifica la pietosa morte in una donna vecchia e malvagia che esercita poteri occulti e recita formule magiche. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti. Gli ultimi episodi di acabbadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952.
Lo strumento tangibile del mistero della vita e della morte in Gallura la si può trovare nel Museo etnografico ”Galluras” a Luras. L’ideatore e direttore del museo è Piergiacomo Pala. È un museo come tanti altri, con varietà di oggetti e documenti e premiato a livello internazionale. Il mazzuolo è l’unico esemplare superstite in Gallura. È un rustico martello di legno d’olivastro stagionato, reso lucido dalla patina del tempo. Ma non è un martello normale costruito da un artigiano, è un corto spezzone, lungo poco meno di trenta centimetri, con una circonferenza di quarantacinque. Il manico, corto e robusto, consente una presa sicura per assestare un colpo pesante e deciso.
Nel museo sono presenti anche altri oggetti rituali che accompagnavano le ultime ore dei malati terminali. Come ad esempio ”lu jualeddu” un piccolo gioco in legno che veniva messo sotto il cuscino del moribondo. La riproduzione del giogo simboleggiava la fine della vita. Staccato dai buoi (la forza che trainava l’aratro e il carro), rappresentava il corpo dell’ammalato, incapace ormai di assolvere al suo compito. Ma se lu juali aveva valore simbolico, il martello della femina acabbadora è un oggetto funzionale. Il martello che in Gallura viene chiamato matzolu ha un corrispondente nel Nuorese, dove viene indicato come matzoccu, e in Campidano dove invece si usava il termine matzoca.
Molto significativa l’intervista che un ultracentenario, nipote diretto di una fèmina acabbadora, rilascia a uno studioso di cultura gallurese. Racconta di questa eutanasia praticata in Gallura. Un’usanza che oggi può apparire terribile ma che negli stazzi serviva ad evitare le sofferenze e aveva un suo significato. L’uomo racconta che quando un malato non riusciva a morire, i familiari, stanchi di vederlo soffrire, si consultavano fra di loro. Costruivano un giogo, come quello del carro a buoi, in miniatura, con legno di sesamo, tenero e profumato, dal colore giallastro. Lo deponevano sotto il cuscino del malato e lo lasciavano tre giorni e tre notti.
Il rito del giogo aveva grande importanza, perché simboleggiava il lavoro della gente di campagna: strumento per addomesticare i giovenchi bradi e per aggiogarli poi, una volta castrati e domati, il giogo rappresentava l’unione del lavoro dell’uomo con quello del bue. Quel piccolo giogo-simbolo, diceva che la vita è inutile se vissuta in solitudine, lontana dalla vita attiva e produttiva e che dev’essere lasciata libera di dissolversi. E se necessario, anche aiutata. Si aspettava così l’alba del terzo giorno. Se a quel punto il malato non dava segni di ripresa ma neppure di peggioramento, si riuniva il consiglio di famiglia e si iniziava un breve rituale, che era un po’ il preliminare dell’intervento estremo.
Si incominciava con l’ammentu, il ricordo: ogni persona presente , cominciando dai più anziani, ricordava ad alta voce al moribondo che era venuta l’ora di pentirsi di tutti i peccati, anche di quelli dimenticati. Per facilitarne il ricordo si elencano i più comuni, ripetendo più volte quelli ritenuti mortali. Molto spesso il moribondo, soprattutto se era ancora pienamente cosciente, non reggeva a questo e non c’era bisogno d’altro. Qualche rara volta lo choc agiva come antidoto e il malato iniziava a migliorare. Ma se le sue condizioni restavano immutate si passava alla penultima fase. Si avvolgeva il malato in un lenzuolo zuppo d’acqua fredda, o lo si immergeva in un contenitore di rame o in una botte da vino adattata. La reazione tra l’acqua gelida e il calore del corpo avrebbe liberato il malato dalla possessione del male o garantito una broncopolmonite fulminante che avrebbe messo fine ad ogni tormento. Questa ipotesi era la più frequente. Eppure non era raro che il moribondo continuasse nonostante tutto a trascinare la sua vita oltre i limiti dell’impossibile. E allora non restava che chiamare la fèmina acabbadora. Ogni paese, ogni circondario ne aveva una.
La fèmina acabbadora arrivava nello stazzo sempre di notte. Ai familiari che le stavano di fronte e che l’avevano chiamata diceva questa frase: ”Deu ci sia” (Dio sia qui). Poi faceva uscire dalla stanza del moribondo tutti i presenti. A questo punto bastava la semplice pressione di un cuscino sul viso o un colpo di matzolu per finire il poverino. Infine li avrebbe chiamati a cosa fatta per piangere insieme ad alta voce la persona cui si era voluto tanto bene e che avrebbe lasciato nella casa e nel cuore dei parenti un vuoto incolmabile.
Sembra quasi che nella cultura del nostro popolo, in passato, ci fosse un rapporto molto stretto con la morte: in qualche modo l’uomo aveva la presunzione di dominarla e la propinava quando non riteneva che la vita avesse più senso per essere vissuta. Ma fine a che punto si può definire saggezza questa orrenda pratica che mirava, sotto il velo della pietà, ad una vera e propria soppressione?