È una calda giornata di Aprile, Cagliari risplende sotto la luce primaverile. Percorro piazza Yenne, godendomi quei giovani raggi di sole. Mi accomodo ad un tavolino e trasognata mi guardo intorno: seduta a fianco una vecchia signora dall’aspetto aristocratico. Ha occhi e labbra truccati con cura, accarezza teneramente un cagnolino che tiene ad uno spesso guinzaglio di maglie dorate. Dirimpetto un uomo giovane, attraente e ben vestito, legge distrattamente un giornale e controlla ripetutamente il proprio orologio.

 

Così, baciata dal sole e dall’aria frizzante, inizio a fantasticare e immaginare la vita dei miei vicini. Lei, una nobil donna, cadde in disgrazia per via di un marito vizioso e impenitente. Per sopravvivere dovette invocare l’aiuto del suo servo, amante segreto nella sua età più bella, che poi rinnegò per la sua condizione sociale. Lo amò con vera passione. Oggi qui con me si bea di quei soffi d’aprile che le evocano passati sospiri. Il giovane uomo invece è lì che aspetta con trepidazione la sua amante, una donna affascinante e seducente che il fato gli ha offerto dopo tutto e tutti: dopo un atteso matrimonio con la sua fidanzata, dopo i figli, dopo una carriera affermata. Questa donna fascinosa sconvolgerà tutta la sua vita e saranno la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua a decidere per lui.

 

Non potrà rinunciarvi, non potrà farne a meno: il richiamo della Terra. Vive con la donna brevi momenti clandestini, intensi, solari e inebrianti, ma anche malinconici e tempestosi come le primavere di montagna, come questo caldo giorno d’aprile. Mentre i miei pensieri giocano e si divertono, un anziano signore, alto e longilineo, cappello a falde larghe e occhiali spessi, si accomoda al tavolino a fianco. Aspetto austero, elegante e un po’ demodé.

 

Porta sottobraccio diversi giornali, uno dei tanti gli cade scivolando vicino ai miei piedi. Lo prendo e glielo porgo con garbo. ”Grazie mille, signorina”, mi dice con voce stentorea e mi osserva, con discrezione. Sono vestita di bianco, ho i capelli sciolti sulle spalle e porto mille collane al collo. ”Mi ricorda una donna della mia gioventù”, mi dice serio. – Spero sia un bel ricordo-, dico, con un po’ di malizia. ”Sì, lo è”, risponde l’uomo e accenna un sorriso. -Era di Cagliari?-, chiedo curiosa. ”Chi la donna? No, no”, risponde imbarazzato. ”La conobbi in quelle montagne aspre e superbe dell’interno, dove ho trascorso gran parte della mia vita”, aggiunge.

 

Anch’io provengo da quei monti-, dico con ostentato orgoglio. -Ma in quale luogo visse precisamente?- chiedo sempre più interessata. ”Meana…Meana Sardo”, risponde. ”Il paese dei pastori profeti! Deve sapere che la prima volta che vidi un pastore fu a Capoterra in una gita con la mia scolaresca. Era un omone granitico che svernava lì con il suo gregge. Mi colpì molto per la sua barba lunga e bianca, ma anche per la sua austerità e fierezza: mi parve proprio di vedere un profeta biblico. Ancora non sapevo che l’avrei rincontrato in un altro luogo, in un altro tempo, in un’altra dimensione. Giunsi a Meana nel novembre del 1912 con un treno a vapore che con scioltezza s’inerpicò per valli e pendii.

 

Pioveva a dirotto e quel cielo crudo di montagna anticipò per me la notte. Mi sembrava che quella rude natura non apprezzasse per niente il mio arrivo. Forse voleva indispettirmi! Avevo amato il mare per tutta la vita, la sua brezza, il suo odore, il suo mistero e il suo intrinseco senso di libertà. Il mio sogno bambino era quello di diventare capitano di lungo corso, di viaggiare e girare il mondo intero attraverso le onde dei mari e degli oceani. Ma un disturbo agli occhi non mi permise di compiere quegli studi, perciò optai per gli studi magistrali, attraverso i quali divenni un apprezzato maestro elementare.

 

L’amministrazione di Meana venne a sapere della mia buona nomea e mi chiese attraverso un amico paterno di insegnare presso la loro scuola. Così, libero da legami sentimentali e cancellati tutti i desideri di acque coralline, accettai la proposta dell’avara terra di Barbagia. Giunto, al buio e sotto la pioggia, m’incamminai per il paese, quando improvvisamente mi apparve quasi dal nulla quel profeta pastore che vidi tempo addietro: – “De ita natione est?”- mi domandò.

 

Capii immediatamente che avevo raggiunto, senza la mia nave, un nuovo continente. Meana, baciato dal sole del mattino e da quello del tramonto, esposto ai venti tutti, sorge su di un’alta collina come un antico monastero basiliano. Amai da subito quel paese, quella sua gente semplice e di morigerati costumi. La vita non era facile allora e ancor meno in quei luoghi: povertà, ignoranza, discriminazione sociale. Ma la gente era rispettosa e con un alto senso civile. Mi sposai con una donna del luogo, la mia cara Cesira, paziente e premurosa fin quando avrei meritato biasimo e rimproveri. Inoltre amavo tantissimo il mio lavoro.

 

Avevo una classe di ben settantacinque alunni: alunni con le scarpe e alunni con i piedi scalzi, alunni diligenti e alunni sfortunati. Ebbi degli ottimi colleghi con i quali strinsi una profonda amicizia. Non sapevo ancora che uomo ero, quando la vita, senza preavviso, me lo volle far sapere. Mi feci promotore della campagna post-bellica per la restituzione delle terre incolte a pastori, contadini e disoccupati reduci della grande guerra, terre che erano divenute proprietà di grosse famiglie locali. Fu in quell’occasione che molti signorotti del paese, sin ad allora ligi e cortesi nei miei confronti, iniziarono con l’odiarmi e tenermi in spregio. Ma non guardai in faccia nessuno, e proseguii quel cammino che la coscienza mi indicava. Collaborai con il giornale sardista ”Il solco” con lo pseudonimo di Proletario avviando un’inchiesta sui beni usurpati. E a causa di questa mie posizioni sopraggiunsero tempi ben più duri per me e per la mia famiglia.

 

Furono i tempi bui del ventennio fascista nei quali dietro un apparente progresso economico e civile albergavano discriminazione, intolleranza e repressione. Io, giovanissimo ma di spirito ribelle, non mi piegai di fronte al nuovo ordine e con un diverso senso di giustizia continuai a combattere per i diritti dei più deboli e disagiati.

 

Erano gli anni Venti e il regime prendeva forma. Per sopprimere l’opposizione sardista e socialista che si estendeva a macchia d’olio in tutta l’isola fra pastori, contadini e minatori, i gerarchi e vari uomini del regime tenevano pubblici comizi in tutti i centri. A Meana se ne tennero diversi. Ed io, con l’ardore e il trasporto che mi hanno sempre contraddistinto, intervenni sempre esponendomi e attirandomi l’ostilità del potere.

 

Dopo il delitto Matteotti, quando l’opposizione parlamentare si ritirò sull’Aventino, nella vicina foresta del Sarcidano venne organizzato il convegno notturno dei ”Fondi rustici”, dove Emilio Lussu ci presentò il suo piano di rivolta. Naturalmente vi partecipai, e con me molti meanesi che non aspettavano altro che insorgere con le armi, appena fosse giunto un segnale da Roma.

 

Tutti coloro che con me presero parte a quell’incontro clandestino li serbo vivi nella memoria con malinconico affetto per la reciproca complicità e per le speranze che ci accomunavano. Ricordo ancora l’emozione: segretamente e pericolosamente, ci recammo nottetempo al luogo prestabilito, una notte senza luna, buia e cupa, tant’è che al ritorno io mi persi nei boschi e solo grazie ad un vaccaro meanese riuscì a ritrovare la via del ritorno. Quest’uomo semplice di campagna non fece mai parola a nessuno di avermi guidato: un vero barbaricino.

 

L’atteso segnale non arrivò mai e il regime pensò bene di punire la mia irriducibilità trasferendomi di stanza ad Atzara, un piccolo centro a quindici chilometri da Meana, che dovetti raggiungere a piedi ogni giorno, per un intero anno. Nei cinque anni successivi, riuscì ad acquistare dapprima una bicicletta e poi una Guzzi leggera con la quale potei raggiungere più agevolmente il centro. La mia opposizione al fascismo si allargò anche tra gli abitanti di Atzara, dove grazie al supporto di alcuni personaggi, tra cui il parroco, le azioni di resistenza si intensificarono. Erano gli anni Trenta, in cui l’antifascismo tentava di riorganizzarsi in tutta Europa con il fronte interno: tenevo contatti segreti con l’opposizione azionista e comunista, diffondevo opuscoli e altro materiale antifascista nelle forme più svariate.

 

M’incontrai con piccoli oppositori politici e vari fuoriusciti. Finalmente grazie ad un amico riuscì a ritornare in servizio a Meana, ma giunsero per me diversi provvedimenti disciplinari e ben due proposte di confino. Mi furono vitali la solidarietà e le testimonianze a mio favore dei popoli di Meana ed Atzara, riuscì grazie ad essi a mantenere il posto di lavoro. Gli esponenti fascisti, non riuscendo ad arrestarmi e tanto meno a frenarmi, tentarono di piegarmi con altre subdole azioni di vendetta. Venni sorvegliato dall’Arma, mi impedirono di fare le lezioni private serali che avevo sempre tenuto sia a meanesi sia a quelli del circondario, negarono l’acqua per irrigare gli orti ai familiari di mia moglie e infine sparsero infamie sulla mia vita privata.

 

Ma io, il maestro senza tessera come usavano chiamarmi, non mi arresi. Ogni anno feci domanda di trasferimento a Cagliari per far sì che i miei numerosi figli studiassero, ma per ritorsione il trasferimento mi venne sempre negato. Divenni noto negli ambienti fascisti come ”un maestro di Barbagia, esempio di antifascismo, di inettitudine e di analfabetismo” (questa fu la definizione che il quotidiano fascista ”Il Giornale di Sardegna” mi riservò).

 

E se questo ritratto a quel tempo mi costò non pochi problemi familiari, a guerra finita e ancor oggi mi inorgoglisce e mi fa dimenticare le sofferenze e le tribolazioni patite. 25 Luglio 1943: caduta del fascismo. A Meana non si sa niente, viene fatta mancare per tutta la notte l’energia elettrica. Il giorno dopo fui il primo a sapere della notizia, l’appresi dalla figlia del capo-cabina del lago Flumendosa, un comunista, che mi informò estasiata. Presi questo cappello a falde larghe che usavo da studente, quando ricco di speranza e aspettative guardavo il mondo, e andai in giro per il paese a comunicare la grande notizia: la fine delle prepotenze, dei soprusi, delle ingiustizie e l’inizio della libertà. Venni nominato sindaco prefettizio di Meana nel Giugno del 1944.

 

Nel mio amato paese potevo finalmente intraprendere un serio cammino di civilizzazione e di progresso. Alla richiesta da parte americana di segnalazione dei nomi degli ex gerarchi, preferii non comunicare nessun dato: chi aveva scelto quell’altra strada avrebbe reso conto in quel tribunale speciale che tutti attende. Vissi a Meana ancora alcuni anni, poi mi trasferii qui a Cagliari.

 

L’ultima volta che vi tornai fu con il mio amico Emilio Lussu, il quale voleva conoscere assolutamente quel coraggioso giudice meanese, Arcangelo Marras, su giuggi mannu, che lo aveva assolto per legittima difesa nel 1927, nonostante la volontà di vendetta e di condanna fascista. Tenemmo anche un comizio, io e Lussu, e il popolo ci acclamò con stima e affetto. Ora, lontano da quei tempi e da quei travagli, trascorro le mie giornate nella quiete delle piazze cittadine, leggendo e passeggiando. Spesso i meanesi mi raggiungono, alcuni forse per nostalgia, altri più giovani per la curiosità di conoscermi. Amo stare con loro, rivivo con commozione i tanti momenti andati: felicità, tormenti, paure ed emozioni”.

 

Il rintocco delle campane della vicina chiesa di Sant’Anna mi desta dall’incanto: è mezzogiorno. Fa proprio caldo, adesso. Guardo ancora quel cappello a falde larghe dell’austero signore seduto davanti a me. ”Bella giornata, vero signorina”?, mi dice l’uomo. -Sì, molto bella. Sa che anche lei, signore, mi ricorda qualcuno?- ”Ah, davvero? Una persona gradita”? -Si. Un grande uomo del mio paese di cui ho sempre sentito parlare, un certo Francesco Fenu, che ho spesso immaginato e sognato di conoscere. Aveva l’abitudine di passeggiare e sedersi proprio qui dove sta lei. È scomparso da tantissimo tempo, circa trenta anni fa, ma il suo ricordo, la sua profonda coerenza e la sua fede negli uomini e nella vita sono ancora vivi in questi luoghi e in quel piccolo paese sulla collina dove trascorse i suoi anni più belli-.