“Cos’ha fatto il Cagliari?” mi chiede Cosimo Tavera durante la nostra chiacchierata. E’ domenica pomeriggio e nonostante il fuso orario di 4 ore la nostalgia ha le lancette della Sardegna. Nel salone del circolo “Sardi Uniti” di Buenos Aires è la figlia Margarita a presentarmi il padre che scorgo seduto al tavolo circondato da alcuni attivisti. Un signore di 90 anni con una straordinaria energia nel parlare di emigrazione e Sardegna senza disdegnare gli argomenti di stretta attualità.
La mia curiosità è quella di chi conosce l’emigrazione solo nelle testimonianze degli emigrati e la prima domanda è: “Dove si trova il coraggio di emigrare?”. “Non è una questione di coraggio- dice Cosimo- si trattava del bisogno di costruirsi un futuro migliore dove sapevamo c’erano le condizioni”. Lontano dalla Sardegna del dopoguerra, verso un’America latina già popolata dagli italiani negli anni ’20. Il mestiere in mano è quello di manovale che mette al servizio di un’impresa sino a quando decide di mettersi in proprio. Il mestiere e le relazioni intraprese lo portarono ben presto ad avere lavori importanti come la costruzione di un intero paese in Patagonia. Ma è nel 1957 che Cosimo Tavera cambia lavoro. Su consiglio di un amico conosciuto tra emigrati tra una partita a carte e una grigliata pensa di produrre prosciutti. E’ in una di queste occasioni che conosce e diventa amico di un altro storico emigrato: Pietro Pintus di Nulvi, 92 anni. “Prima di prendere la decisione sul da farsi volli vedere di cosa si trattava e come funzionava una ditta di prosciutti visto che per me era un’assoluta novità” disse Cosimo. Io lo immagino tagliare le strade di Buenos Aires in sella alla sua Norton per raggiungere i terreni dove sorgerà la “Sarda S.A.C.” Non è la sceneggiatura di un film, nemmeno quando Cosimo disse ai militari dell’esercito che non era il caso di irrompere tra i suoi operai ma dopo qualche giorno 2 di loro al lavoro non si presentarono e i loro nomi si aggiunsero all’elenco di desaparecidos.
Il contesto storico-politico nonostante il peronismo e la dittatura rimane come sfondo ad una storia personale di Cosimo e collettiva del mondo dell’emigrazione capace di adattarsi e affrontare tutte le difficoltà di chi nella terra più lontana, dove per arrivarci sono stati necessari 23 giorni di navigazione, è stato possibile immaginare o costruire una vita migliore rispetto a quella temuta in Italia. Oltre le proprie abitazioni e i luoghi di lavoro c’è uno spazio fisico che più di tutti è il simbolo di un’emigrazione che ce l’ha fatta: calle Mendez de Andes n.°884. E’ una meta e un punto di partenza. Nel salone dove ho incontrato Cosimo è rimasto quel pulviscolo di dialetti sardi, canti e musiche, giochi di morra e riunioni, basta chiudere gli occhi per riavvolgere il nastro di ricordi mai vissuti. Appena si entra nel circolo sulla destra una targa al muro intitola il salone a Cosimo Tavera. L’idea è di Giancarlo Porru di Iglesias, presidente del circolo dal 1996 al 1998 che volle rendere omaggio a Cosimo per il suo lavoro per gli emigrati sardi. Cosimo è stato presidente del circolo dal 1976 al 1980 e dal 1988 al 1996. Il circolo nacque come punto di riferimento dell’emigrazione sarda in un momento in cui la lingua e le leggi non favorivano l’integrazione, così divenne una società di mutuo soccorso dove i sardi crearono quell’unità difficile da costruire in patria e impastarono il cemento delle mura con la solidarietà che ieri come oggi sostiene gli iscritti al circolo. Ma è l’attualità la curiosità più grande di Cosimo, 90 anni proiettati nel futuro con la preoccupazione per le sorti della Sardegna che si aggrappa alla nuova giunta regionale e con uno guardo di fiducia nei confronti di Renzi atteso alla prova dei fatti. Cosimo declina i fatti che negli ultimi anni sono avvenuti in Italia con una capacità di analisi che non si fa tradire dalla nostalgia e la mia domanda sorge spontanea: “Come mai è così informato?”. “Io sono abbonato alla Rai- dice Cosimo- e al corriere della sera, essendo in pensione ho tutto il tempo per leggere ed ascoltare”. Partito da Ittiri nel 1949 è uno dei reduci di quell’emigrazione che è diventata storia, nel suo viaggio di addio alla Sardegna ha solcato il mare come una lunga ferita la cui cicatrice è un ricordo lontano, bagnata dalle lacrime, tirata dalle risate. E’ una storia a ritmo di serrato, una morra con la vita, un ballu tundu sulla polvere, è una generazione che ha fermato il vento con le mani, è il sangue che non sarà mai acqua.