Ignazio Macchiarella è ricercatore di Etnomusicologia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari. Ha cominciato a studiare la musica trasmessa oralmente a partire dal 1980, con ricerche sul campo in varie regioni. Fra i temi trattati: rapporti fra musica e religione, musica e rito; pratiche del canto a più parti vocali; analisi delle forme dell’oralità in musica; costruzione delle identità attraverso la musica; attualità del far musica negli scenari della vita sociale contemporanea. Negli ultimi anni ha concentrato la ricerca in Sardegna e Corsica, sviluppando una metodologia basata sulla interazione con i protagonisti delle pratiche musicali studiate.

 

-Lei  ha curato il saggio di Musica Sarda di studiosi come Diego Carpitella, Pietro Sassu e Leonardo Sole. Cosa ha rappresentato questa esperienza? Quale memoria e patrimonio ci porta dalla sua Sicilia?

Conobbi l’etnomusicologia trent’anni fa grazie a un grande sardo, Pietro Sassu. Assistevo a una sua lezione all’Università di Palermo sul Miserere di Santulussurgiu e lo Stabat Mater di Castelsardo. Ragionava di analisi musicologiche, di ricerche sul campo. Poi, grazie allo stesso Pietro, giunsi in Sardegna, e cominciai a conoscere i sardi che cantavano. Nel duemila vinsi il concorso nazionale per il settore disciplinare L-ART08 bandito dalla facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari. Ho preso casa a Santulussurgiu grazie ai miei cari amici de Su Cuncordu de su Rosàriu e vivo una realtà paesana che fa tanta musica, dove una parte importante delle relazioni sociali ruota intorno al canto a cuncordu.

Le identità sono costruzioni culturali, selezioni di tratti che andiamo sviluppando tra i contesti della vita sociale. Sono cresciuto in un ambiente difficile, alla periferia est di Palermo, in una zona definita mafiosa. Ogni tanto sui giornali mi capita di trovare notizie su compagni di infanzia con cui giocavo a pallone in strada, che finiscono ammazzati o in galera. La mia Sicilia, però, è anche quella contadina e onesta della mia famiglia, con un piccolo limoneto e i sacrifici di papà operaio; quella di tanta gente che vive nel rispetto altrui; quella delle mie ricerche che attraverso la musica rappresentano valori etici, di solidarietà e generosità, quella che rivendica la propria identità per un’eredità storico-culturale, sottolineando la tolleranza e convivenza multiculturale e plurireligiosa, emblema della corte di Federico II; ed è anche la Sicilia delle pagine di Gesualdo Bufalino.

 

-La Sardegna può offrire all’etnomusicologo nuove possibilità di ricerca?

La ricerca etnomusicologica non è legata a un luogo ma a una metodologia scientifica. Secondo John Blacking la nostra disciplina è un modo per studiare e interpretare tutte le musiche del mondo. La mia attività non riguarda solo la Sardegna o “l’autentica musica sarda tradizionale” (l’autenticità è una costruzione culturale che cambia a seconda di chi la usa e delle epoche). Cerco di analizzare certi modi particolari di far musica oggi nel mondo, studiare degli specifici scenari esecutivi e di interpretarne i significati culturali condivisi fra i partecipanti, fra chi canta e suona e chi ascolta.

 

-Come siciliano sente di “tradire” la sua Sicilia per la Sardegna?

Ma no! La vita ci porta spesso lontano dal posto natio: non c’è tradimento. È importante coltivare relazioni affettive con la “terra madre” ma anche confrontarsi con altri modi di vivere. Questa combinazione aiuta a crescere. Poi dipende dalle storie personali: i miei figli, nati a Trento, vi vivono circa otto mesi all’anno, gli altri quattro li passano a Santulussurgiu. La mamma è romana, io gli parlo spesso in siciliano: che “patria” avranno? Se la sceglieranno loro stessi crescendo, e spero abbiano modo di confrontarsi in “altri mondi”.

 

-Cosa significa essere etnomusicologo?

In generale si associa alla musica l’idea del divertimento. Non è così. La musica è un qualcosa di complesso: linguaggio simbolico, potente marcatore di identità. Scrive Nicholas Cook: attraverso la musica le persone pensano se stesse e il mondo, chi sono, chi vorrebbero essere. L’etnomusicologo con i suoi strumenti può contribuire alla interpretazione della complessità del presente, degli scenari di convivenza multiculturali e interculturali. La nostra è una scienza che trae la forza e utilità nello studiare ciò che ha a che fare con le emozioni e col costituirsi in gruppi umani.

 

-Come etnomusicologo e come uomo ha dei sogni da realizzare?

Un sogno è creare a Cagliari un centro  internazionale di studi etnomusicologici. Le basi sono già  nel corso sperimentale di etnomusicologia del Conservatorio avviato con la Facoltà di Lettere. Abbiamo organizzato collaborazioni nazionali e internazionali: ospitato un simposio specialistico di risonanza mondiale (il Multipart Music del 2010: www.multipartmusic.org) con dei maestri della disciplina, europei e americani e svolto attività di ricerca. Già due miei dottorandi, Marco Lutzu e Paolo Bravi, hanno avuto riconoscimenti dalla comunità scientifica; studenti più giovani cominciano a proporre lavori interessanti nel sito www.musicaemusiche.org. Sogno una Cagliari punto di riferimento importante nell’etnomusicologia europea.