Salvatorangelo Murgia Niola: un pastore che racconta con i versi ogni sfumatura della sua vita. Un’esistenza faticosa, contrassegnata da un lavoro intenso che non consente soste, condizionato dagli umori altalenanti del clima e dalle conseguenti sorti del gregge e del bestiame, mutevoli di anno in anno. Un percorso difficile, che richiede forza fisica e tempra il carattere, armoniosamente cadenzato dalla dolce melodia di rime raffinate e coloristiche, che hanno reso poesia sentimenti, visioni paesaggistiche, amori, ricordi e immagini di vita quotidiana.
È questo l’universo di Salvatorangelo. Alto e di corporatura snella, con lo sguardo attento e sicuro di una persona abituata a dire le cose in faccia, ha mani forti ed abbronzate, che parlano del lavoro all’aria aperta nell’amato ovile di Pubusone, dal quale è appena rientrato. Mi racconta che ha dovuto mungere da solo duecento pecore, perché oggi il figlio Giovanni è fuori paese. Originario di Macomer, Salvatorangelo Murgia Niola è pastore da tre generazioni. Un vanto se si considera che attualmente questa tipologia di mestiere tradizionale, con alle spalle anni di storia e di dignità, sta lentamente scomparendo, vinto dalle sempre maggiori difficoltà dovute alla crisi del settore e dallo scarso interesse manifestato dalle nuove generazioni.
Dae cando tenia set’ot’ annos
andaia cun babbu a laorare:
prima m’as imparadu a marronare
e poi a arare, a surcos mannos
Così ha inizio Ammentos de pitzinnu, poesia che ripercorre con toni nostalgici i primi e genuini ricordi legati alla terra. ”Ho cominciato ad andare in campagna all’età di sette anni per laghinzare, ossia portare al pascolo gli agnelli di un anno e mezzo di vita che ancora non sono produttivi – racconta Salvatorangelo –. L’ovile è una scuola che ha tanto da insegnare, e fin da piccoli è importante iniziare ad apprendere la gestualità e le nozioni di questa attività, come mùrghere e tentare, facendoli propri”.
Un sapere millenario che non si studia sui libri di testo, ma è fatto di conoscenze maturate con l’esperienza, nel contatto diretto con la campagna e con gli animali, e di capacità manuali e interpretative dei messaggi che la natura trasmette. Un’arte anche questa difficile da acquisire, che matura giorno dopo giorno e richiede passione e costanza, affinate poi con la tecnica ed una buona dose di saggezza.
”A Macomer le famiglie che si dedicano alla pastorizia attualmente sono circa dieci –prosegue Salvatorangelo Murgia Niola–. Un numero basso, inevitabilmente destinato a ridimensionarsi ulteriormente. ”La vita in campagna non è semplice, richiede il massimo impegno e non conosce giorni di vacanza. Le difficoltà da superare sono innumerevoli, specialmente in quest’ultimo periodo nel quale il guadagno per il lavoro svolto non rende più come in passato. Un litro di latte attualmente ci viene pagato 50 centesimi di euro, una cifra irrisoria. Se a questo si aggiungono poi i tanti imprevisti legati alla pioggia o al caldo, la situazione si aggrava notevolmente. A tal proposito – sottolinea con dispiacere il pastore-poeta – non avevo mai visto un mese di maggio secco come quello di quest’anno, a danno delle provviste di fieno”.
Anche per quanto riguarda la vendita del bestiame, il quadro non è affatto roseo. ”La fiera zootecnica, nata a Macomer, è stata per più di quarant’anni fonte di ricchezza e di benessere – spiega da esperto allevatore Salvatorangelo, le cui pecore hanno vinto diverse rassegne regionali –. Se prima durante queste importanti occasioni si riusciva a guadagnare in maniera soddisfacente, ora le fiere sono diventate esclusivamente momenti di incontro con gli altri allevatori, di esposizione del bestiame e raramente di vendita”.
È ormai lontano quell’indimenticabile episodio del 1967 che Salvatorangelo ama tanto ricordare, quando con il ricavato della vendita di una vacca selezionata aveva potuto acquistare una Renault 4. Un esempio eloquente di come la crisi legata ai costi abbia investito con violenza il mondo pastorale. Una realtà autoctona, che da sempre ha rappresentato la nostra terra, rischia ora di cadere sotto il peso delle quote latte, della carne importata dall’estero a bassi costi e dell’indifferenza della gente e delle istituzioni, fino forse a morire.
”Sarebbe opportuno puntare sulla formazione professionale giovanile per fare in modo che questo mestiere venga incoraggiato e sostenuto, affinché se ne eviti la scomparsa”, suggerisce saggiamente Salvatorangelo, a cui questa questione sta molto a cuore. Riaprendo il cassetto delle memorie ritorna con la mente agli anni Sessanta e racconta come, in quel periodo, erano molti quelli che rinunciavano al lavoro all’aria aperta: troppa fatica, troppi sacrifici. Emigrarono in tanti, a discapito dell’agricoltura che nella zona del Marghine venne pian piano ad esaurirsi.
”I Bororesi in passato erano prevalentemente contadini- spiega ancora – e si recavano a Macomer per arare i campi Con una giornata di lavoro pagata in grano guadagnavano ben poco, così da non ricavarne alcuna convenienza. E presto il fascino delle nascenti industrie e del cosiddetto posto sicuro ammaliò diverse persone”. Molti, ma non Salvatoragelo Murgia Niola. Gli domando se, di fronte a questa situazione di grave disagio, potendo tornare indietro preferirebbe rischiare meno intraprendendo un’attività differente, meno sacrificante e più redditizia. La sua risposta è poesia, seppure non resa in versi: ”Sono profondamente innamorato di questo lavoro, anche se ogni giorno mi alzo alle cinque del mattino, perché per me ha rappresentato tutto. La campagna è la mia cultura, la mia scuola, la mia casa. È indipendenza, creatività, dinamismo. Non rinuncerei mai a questa ricchezza per un lavoro in fabbrica o in città, magari fuori dalla Sardegna: starei male, mi sentirei morire. Una volta mi sono recato a Roma e, dopo un paio di giorni, non riuscivo più a resistere, mi mancava quasi l’aria”.
E non solo quella. Sicuramente anche gli alberi, i colori delle stagioni, le albe e i tramonti della sua campagna, il vento, le diverse specie di animali. Un mondo che si anima in modo spettacolare nelle poesie di Salvatorangelo, meritevole vincitore di tanti concorsi letterari. Versi scritti e meditati ma pure versi improvvisati, in perfetta sintonia con la nostra tradizione di cantadores. ”Ho iniziato a cantare quando avevo dodici anni in sos tzilleris, dove ci si riuniva nei fine settimana. Spesso la sera andavo via dall’ovile, dove stavamo di guardia al bestiame, e scendevo in paese per poter cantare. Mio padre, pur essendo a conoscenza di questa mia grande passione, fingeva di non sapere e si nascondeva perché non potessi vederlo. Dall’esterno però mi ascoltava. E qualche volta capitava che l’indomani stesso mi rimproverasse per qualche risposta non condivisa suggerendomi cosa invece avrei potuto dire”.
È un personaggio non comune, Salvatorangelo Murgia Niola, di quelli che ti lasciano qualcosa dentro già al primo incontro e dai quali ci si congeda a malincuore, con la sensazione rasserenante di essersi in qualche modo arricchiti. Un uomo, pastore e poeta, che ama la natura con l’onestà del lavoro e la delicatezza musicale dei versi e, in un mondo di valori ribaltati, continua a credere in quelli appresi nella sua vita in campagna, genuini come i prodotti della terra.
Tota sa vida ses andande in fatu,
d’erbeghes lanzas chi dan paga resa
ca no lis bastat mai su recatu!
Ma in s’umile tua poberesa
mischiada a sas penas e suores
as de su mundu sa menzus richesa.
Sun tuos totucantos sos fiores
chi creschen in autunzu e in beranu,
fritos d’ilgerru e d’istiu assutores.
Sun tuos sos lugores de manzanu
cando su sole ispannat sos chintales
e-i s’iscuru che mandat lontanu.
Tuos sos mudamentos naturales
ch’in su cursu ’e sa die bi sutzedin
e nde connoschen totu sos signales.
(Pastore ricu)