Era il primo ottobre del 1966.
In una mattina festosa e chiassosa Totoni si trovava con i suoi compagni nel cortile antistante la scuola elementare del suo paese, un piccolo centro della Sardegna, in attesa di mettervi piede per la prima volta nella sua vita.
Ordinato e curato come non mai, col suo enorme fiocco rosa che spiccava sul nero-antrace del grembiule, all’appello della maestra si dispose in fila intimorito e fece il suo ingresso in aula.
Alla prima lezione la maestra, con tono imperioso e cattedratico, esordì dicendo che a scuola vi era il divieto assoluto e tassativo di parlare in dialetto. Sottovoce Totoni si rivolse preoccupato al compagno di banco:
– Barò, ita est custu diavoletu, ddu scis tui?
Totoni, forse per l’emozione, forse per l’idea del peccato, della disobbedienza e del venir meno alle regole della disciplina o semplicemente perché la lingua sarda per lui era su sardu e basta, quella parola stramba l’aveva associata a qualcosa di diabolico, di proibito e di peccaminoso. E divenne diavoletto quel dialetto che era la sua lingua, quella che conosceva da sempre e che tutti parlavano.
Fu allora che per la prima volta si trovò di fronte alla necessità di esprimersi in italiano, con la maestra ovviamente, perché con Barori e i compagni, lontano dall’orecchio inquisitore della insegnante, poteva liberamente esprimersi nella sua lingua.
Quella mattina a scuola, come i suoi compagni, cominciò a vedere vacillare le sue certezze: aveva visto, vissuto ed interpretato il mondo con la lingua sarda, doveva invece, per apprendere la Cultura, metterla da parte perché poteva essere d’intralcio all’apprendimento dell’Idioma nazionale.
Erano gli anni in cui per molti di noi la lingua sarda era la lingua materna, era la Nostra Lingua, ma la scuola la emarginava, la disprezzava e ne vietava l’uso. La conseguenza è stata a dir poco devastante in quanto in molti Sardi è maturato quel senso di disprezzo e di disamore per la propria lingua e la propria cultura che solo oggi finalmente si sta in parte superando.
Poi verranno gli anni in cui molte mamme, per essere al passo con i tempi, abbandoneranno la propria parlata nella conversazione con i figli ed useranno l’idioma nazionale, privandoli di quella lingua che solo loro potevano trasmettere e far amare.
È il 27 settembre del 2006.
Mary frequenta la prima media in una scuola dell’hinterland cagliaritano. Da giorni con ansia e trepidazione si trova di fronte alle prove d’ingresso che gli insegnanti propongono per accertare il livello di preparazione degli alunni.
Finalmente, ecco, è arrivato il giorno in cui la prof. di italiano consegna il test sull’uso e la conoscenza del lessico. Mary, stretta nei suoi jeans e attorniata da quaderni, diario e oggetti griffati, ordinata e disciplinata, attende con apprensione che la prof. consegni la scheda.
Non appena si trova in mano il compito, il suo sguardo cade subito su quel segno rosso che sottolinea la parola bambo.
– Come!- esclama attonita – Mia mamma mi ha insegnato che il contrario di salato è bambo.-
Certo la maestra di Totoni sarebbe inorridita davanti al sardismo bambo e avrebbe redarguito il suo allievo. Ma i tempi sono cambiati e la prof di Maria, che ha in progetto di insegnare ai suoi ragazzi la lingua sarda, spiega l’origine di quello strano “neologismo”.
Sono gli anni in cui le direttive nazionali e regionali suggeriscono agli insegnanti di valorizzare e recuperare la tradizione, la lingua e la cultura sarda perché, superate le vecchie concezioni didattiche, si è finalmente giunti a capire che non vi è alcuna interferenza nella conoscenza di altre lingue, ma al contrario la diversità e la varietà dei linguaggi sono considerate una ricchezza.
Si è però giunti ad una situazione che sfiora il paradosso: Totoni considerava il sardo la sua lingua, Mary considera l’italiano la sua lingua e a stento capisce qualche parola in sardo.
La scuola di oggi si trova a dover rimediare ai danni che essa stessa in passato ha creato per volontà delle dissennate politiche nazionali e regionali.
Ma è ancora possibile recuperare o è ormai tardi? È possibile e doveroso proporre ai bambini e ai ragazzi lo studio della nostra lingua, perché essa è in qualche modo presente nella cultura e nell’ambiente in cui vivono, come dimostra anche la trasposizione del termine bambu in lingua italiana. I nonni e molti genitori dei nostri allievi conoscono perfettamente la lingua sarda, semplicemente devono imparare ad amarla di nuovo.
La scuola può sicuramente incentivare questo processo di riappropriazione della lingua e favorire l’acquisizione del sentimento di orgoglio di essere Sardi. Bisogna però che l’insegnamento del sardo trovi una collocazione più netta e marcata nella scuola, perché attualmente è lasciata alla libera ed autonoma iniziativa degli insegnanti.
Gli strumenti a disposizione, sebbene presentino dei limiti, esistono. La Legge Regionale 26, promulgata nel 1997 e la Legge 482, del 1999, finanziano e favoriscono il recupero della lingua sarda nelle scuole, ma spesso l’iter burocratico è talmente macchinoso che molti insegnanti gettano la spugna. Inoltre con la Legge 26 vengono finanziati anche progetti che riguardano la cultura e la tradizione, come la ceramica o i mestieri di una volta.
La lingua, dunque, nei progetti presentati passa spesso in subordine in quanto molti docenti non parlano e non capiscono il sardo in alcuna variante. Talvolta succede di dover “combattere” all’interno della stessa istituzione scolastica: capita ancora, come accadeva ai tempi di Totoni, di vedere qualche docente storcere il naso di fronte ad iniziative volte a valorizzare la lingua e la cultura sarda.
Oltre alla 26 ed alla 482 è possibile inserire lo studio della nostra lingua nel curricolo scolastico ricorrendo alla quota del 15% ammessa dalla Legge sulla Autonomia, ma è questa una strada che difficilmente viene percorsa dai docenti in quanto spesso ci si scontra con altri insegnanti contrari all’utilizzo totale della quota.
Siamo lontani dal poter veramente porre rimedio al danno che la scuola ha operato nei confronti della nostra lingua, poiché non le sono stati attribuiti pienamente la dignità e lo spazio necessari. Insomma, dobbiamo concludere amaramente che siamo ancora, come sostiene il professor Giovanni Lilliu, ad una lingua a libertà limitata.