Esiste una linea interpretativa della figura di Emilio Lussu e dei suoi scritti fortemente orientata ad attribuire un notevole ruolo alle origini sarde dello scrittore. Simonetta Salvestroni, più di altri, ha insistito nel leggere Un anno sull’Altipiano accanto alle pagine dedicate alla Sardegna, soprattutto quelle del racconto Il cinghiale del Diavolo. L’ipotesi della studiosa non nasce dal nulla: è stato lo stesso Lussu, in un articolo del 1952, ad attestare di essere rimasto legato alle tradizioni della società sarda da un ”istinto atavico” e, inoltre, di aver ricevuto la prima formazione democratica dal padre, ”un provinciale semplice senza nessuna cultura”. Alla luce di tali considerazioni, per capire meglio il modo di agire di Lussu di fronte agli eventi più significativi della guerra del ’15-18, non può essere affatto omessa la sua educazione nella società di origine, quella di Armungia, e, in particolare, la ”scuola di caccia” ricordata nel Commento al Cinghiale del Diavolo Lussu si sofferma a lungo a descriverne le regole, consacrate dalla tradizione ed equivalenti a leggi, facendo notare come ognuna di esse, per esempio quella di non sparare sul cervo, il daino o il muflone perché rappresentano ”un anima che faceva penitenza”, nasce da un preciso bisogno, è logica e necessaria per la buona riuscita della battuta. Proprio obbedendo a queste regole, con la rinuncia ad abbattere il cinghiale più grosso perché il capo-caccia gli aveva ordinato di non farlo se l’animale gli si fosse presentato di fronte, Lussu tredicenne si rende meritevole, con tutti gli onori, di entrare a far parte del ”patriziato” dei grandi cacciatori dimostrando di essere provvisto di un forte senso di disciplina che nel codice morale di quella civiltà ”arcaica” riveste un ruolo assai rilevante.

 

Michelangelo Pira ha sostenuto l’interessante tesi secondo la quale: ”Per il suo carattere speciale, rispetto al modo in cui viene generalmente intesa, per il senso di disciplina e il coraggio che impone, per la tattica degli attacchi combinati alla selvaggina, questo tipo di caccia fa pensare ad un serio addestramento alla guerra, quella condotta con intelligenza e forte senso del dovere nella quale certamente credeva il Lussu interventista de 1915”. In Un anno sull’Altipiano si può ritrovare un paragone esplicito che il narratore-protagonista istituisce tra la guerra e la caccia.

 

Io facevo la guerra fin dall’inizio. Fare la guerra, per anni, significava acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita.

 

Il paragone col cinghiale è certamente di ascendenza infantile, sarda, e il tenente Lussu che punta il nemico, visto come una preda, suggerisce la classica immagine del cacciatore fermo alla posta.

 

Il modello di uomo che Lussu bambino deve diventare è quello indicato ad ogni bimbo ”patrizio” di Armungia e dei paesi barbaricini in genere: è una persona che deve guardare dritto negli occhi il proprio interlocutore, amico o nemico che sia. Abbassare lo sguardo significa arrendersi, fuggire, sottomettersi. A tale proposito può essere riportato un singolare episodio ricordato dallo scrittore in Nacista di demotratici.

 

All’età di dodici anni, finita la scuola elementare ad Armungia, Lussu viene mandato dal padre Giuanniccu al collegio salesiano di Lanusei. Qui certi insegnamenti pretendono che tutti gli allievi nel rivolgersi a loro tengano gli occhi bassi in segno di rispetto. Succede allora che nel corso di un diverbio con un censore che lo redarguiva per la sua condotta riprovevole, Lussu, pur riconoscendosi colpevole, ne sostiene lo sguardo e, per questo fatto, è punito ulteriormente. Il padre, contrariamente all’intransigente educatore, si dimostra fiero del comportamento del figlio: egli, infatti, ha appreso una lezione che poi si rivelerà molto preziosa nel corso degli anni.

 

Qualche decennio più tardi, come ricorda Camillo Bellieni, lo stesso episodio si verifica durante la guerra, quando un colonnello gli ordina di portare fuori dalla trincea l’intera compagnia all’assalto contro il filo spinato e le mitragliatrici austriache:

 

Il capitano Lussu lo guardò dritto negli occhi e gridò: ”Signor colonnello io non sono un assassino, esco dalla trincea da solo.” Il colonnello urlò e minaccio: allorail capitano estrasse la pistola e sempre guardandolo fisso, freddo come il ghiaccio,rispose: ”Signor colonnello, la vede la pistola? Bene, con una pallottola le buco l’occhio destro. Se preferisce che le buchi l’occhio sinistro non ha che da dirmelo.”

 

 

Come si può notare l’atteggiamento di Lussu in trincea è caratterizzato dalla radicale coerenza all’irremovibilità già dimostrata col censore salesiano.

 

Quanto detto precedentemente riguardo alla ”scuola di caccia” nella quale il giovanissimo Lussu era stato educato, vale per il concetto di capo. La feroce critica lussiana nei confronti dei supremi comandanti dell’esercito italiano, additati come veri irresponsabili, assolutamente privi di senso logico-tattistico, perfino criminali in quanto pronti a sacrificare inutilmente la vita di numerosi combattenti, scaturisce non soltanto dall’immediato presente, ma affonda le radici in un passato remoto, nella ”comunità patriarcale senza differenze di classe” dove lo scrittore aveva ricevuto la prima formazione democratica. E’ qui che il bambino impara quali siano le autentiche caratteristiche e qualità che un superiore, non in senso classista, ma morale, deve possedere. Esse sono tutti riassumibili nella figura del capo-caccia, del quale viene fornito un mirabile ritratto nel Cinghiale del Diavolo.

 

Anzitutto è necessario che sia un ottimo tiratore e che possieda un’irreprensibile condotta morale; poi deve avere un ottimo senso dell’orientamento, oltre che nello spazio anche nel tempo, per prevedere esattamente l’andamento della battuta. I suoi ordini esigono l’obbedienza assoluta: il ruolo che ricopre è anche quello di istruttore e giudice inappellabile.

 

Il modo in cui vengono ricordate la saggezza e la fondamentale giustizia delle decisioni prese da questi capi, la loro ”serenità”, ”il calmo tono di comando”, sottolinea da parte dell’autore un senso di ammirazione e di rispetto e, soprattutto, il riconoscimento di un’autorità non subita ma accettata spontaneamente. Cosi come Lussu la presenta, per quanto arcaica e sorpassata possa apparire rispetto alle esigenze della civiltà moderna, l’immagine del capo-caccia riflette a sua volta il prototipo di una società ideale, quasi utopica, governata dai membri migliori, con leggi derivate dalla consuetudine ma giuste e sagge. Una realtà in cui l’individuo vale ed è giudicato in base alle proprie qualità etiche, e, sviluppa con il potere (nella persona che lo rappresenta e che lo esercita) un rapporto che non è di dissidio o di opprimente sottomissione ma di fondamentale armonia. Il contatto con lo stato maggiore e i suoi discutibili metodi rappresenta, al contrario, il primo aperto contrasto di Lussu con l’egemonia. Il giovane tenente sardo ricerca le qualità del capo-caccia nei diretti superiori ma è sconfitto già in partenza perché non riuscirà mai a trovarle.

 

Gli elementi fin qui illustrati, oltre a mettere in luce cosa vi sia  dietro certi personali atteggiamenti di Emilio Lussu di fronte ad alcuni episodi vissuti durante la Grande Guerra, dimostrano di avere come denominatore comune il costante riferimento alla terra d’origine dello scrittore: la Sardegna. La patria natia entra con prepotenza nella concezione del mondo di Lussu, nell’idea sempre presente della dignità, nel modo dell’autore di interpretare le vicende umane, il carattere e il valore degli uomini.

 

C’è quindi un’inscindibile identità tra il modo di essere, di vivere, di sentirsi di Lussu e la sua inconfondibile maniera di esprimersi e di raccontare. Per meglio capire lo scrittore bisogna ricercare continuamente l’uomo, le scelte che ha fatto, il fondo di una coscienza e di una morale, la società in cui si è formato. Flammarion dice che lo stile è l’uomo, nel caso di Emilio Lussu si potrebbe dire, invece, che l’uomo è lo stile.