Nell’Isola il pane non è solo cibo: è socialità, rito, patrimonio, eredità culturale

Il pane della festa, quello del quotidiano, dei riti religiosi e della Pasqua. Il pane bianco e quello nero, duro o morbido, sottile come una sfoglia o grande da fare a fette. Il pane dei bambini, degli sposi e degli scapoli, il pane dell’inverno e quello dei pastori. In Sardegna il pane non è solo un alimento ma “uno de tratti culturali più intrinseci e rappresentativi della condizione sarda“, per usare le parole dell’antropologo Alberto Maria Cirese. E proprio Cirese, titolare della cattedra di Storia delle Tradizioni popolari all’Università di Cagliari tra il 1957 e il 1972, ha dato inizio sessant’anni fa a una serie di studi volti a conoscere la tradizione del pane e della panificazione in Sardegna.

Una tradizione antichissima: la coltivazione di cereali nell’Isola era praticata sin dal Neolitico antico, come confermano resti di grani e macine trovati nella grotta di Filiestru, a Mara in provincia di Sassari. Dall’età nuragica, periodo che gli studiosi collocano tra il XVIII e il III secolo avanti Cristo, arrivano tante testimonianze di cerealicoltura e lavorazione: villaggi e nuraghi hanno restituito grandi contenitori per conservare i cereali, e poi macine, macinelli e pestelli per la lavorazione del grano, spiane di cottura e coppe usate per cuocere l’impasto di farina e acqua; uno dei simboli più conosciuti dell’età nuragica, la pintadera, veniva usato come un timbro per decorare il pane prima della cottura, l’esemplare più famoso è stato trovato nel nuraghe Santu Antine a Torralba ed è oggi il logo del Banco di Sardegna.

La pintadera ritrovata a Torralba
Uno dei simboli più conosciuti dell’età nuragica, la pintadera, veniva usato come un timbro per decorare il pane prima della cottura. L’esemplare più famoso è stato trovato nel nuraghe Santu Antine a Torralba ed è oggi il logo del Banco di Sardegna.

Non mancano poi bronzetti che rappresentano uomini ritratti nel gesto di offrire un pane tondo, spesso decorato con motivi geometrici. Da una capanna nuragica del sito di Genna Maria a Villanovaforru, risalente al IX-VIII secolo avanti Cristo, arriva un pezzo di pane carbonizzato: è il testimone più antico della panificazione in Sardegna.

Con l’arrivo delle genti fenicio-puniche nelle coste sarde, gli isolani apprendono nuove tecniche di preparazione e cottura degli impasti, tecniche che si evolveranno nei secoli anche grazie a nuovi contatti e conoscenze.

La storia del pane è dunque una storia che ha accompagnato da sempre la vita degli uomini e delle donne in Sardegna, profondamente legata a gesti, rituali, momenti del quotidiano. Se i processi per coltivare il grano, trasformarlo in farina e farne impasto sono comuni a tutto il Mediterraneo, la creazione di forme così varie cotte in diverso modo è una caratteristica tutta sarda.

Da nord a sud dell’Isola esistono centinaia di tipi di pane: una classificazione univoca è impossibile, mentre possiamo considerare i pani in base all’uso (quotidiano, rituale, legato a momenti di festa), all’impasto (duro o morbido), al colore (bianco o scuro in base alle farine utilizzate), allo spessore. Ci sono poi pani conditi o speciali legati alle stagioni, quelli decorati per occasioni particolari, quelli, ormai desueti, destinati ai bambini.

Conosciamo il mondo della panificazione tradizionale grazie al grande lavoro di antropologi, sociologi ed economisti, che hanno documentato con sapienza tutti i processi che fino a pochi decenni fa coinvolgevano tutte le famiglie nella creazione del pane a partire dalla raccolta del grano. Tra le opere recenti più significative, “Pani: tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna”, volume pubblicato da Ilisso edizioni nel 2005 con i contributi, tra gli altri, di Alberto Maria Cirese, Giulio Angioni, Tatiana Cossu, Barbara Fois, Paolo Piquereddu, Vladimira Desogus.

Generalmente le famiglie abbienti avevano in casa spazi dedicati per la macina (domu ‘e sa mola) e per preparare il pane (domu ‘e sa farra): ambienti che oggi possiamo conoscere visitando il suggestivo museo del Grano di Ortacesus.

museo del grano
Ortacesus, museo del grano
guigoni
Alessandra Guigoni, antropologa

Ogni donna portava con sé con le nozze un corredo di cesti, canestri, panni e strumenti vari per preparare il pane. Dopo la pulitura e asciugatura, il grano veniva macinato, e la farina che si otteneva setacciata fino a ottenere diversi prodotti più o meno fini; l’impasto con acqua, sale e lievito veniva fatto al mattino molto presto e richiedeva alcune ore di lavoro; dopo essere messo in forma veniva poi cotto nel forno a legna. La panificazione non era operazione quotidiana ma si svolgeva ogni sette, dieci giorni; il pane dei pastori transumanti, pistoccu o carasau, veniva cotto due volte fino ad assumere una consistenza croccante e di lunga durata, anche per cinque o sei mesi.

La panificazione oggi non è più un affare familiare: dagli anni Cinquanta, con i mutamenti sociali ed economici e l’avvento della macinazione industriale, chi prepara il pane in casa si limita all’impasto, alla forma e alla cottura, mentre le farine si scelgono e si acquistano già pronte; spesso arrivano dal mercato estero, anche se di recente alcune aziende agricole sarde stanno tornando a coltivare i grani antichi; tra queste sa Laurera, a Villanovaforru.

Oggi troviamo in commercio tantissimi tipi di pane tradizionale e molti sono ancora prodotti in casa grazie alla trasmissione di ricette e procedimenti; nessuno di questi ha una certificazione Igp o Dop, ma diversi come civraxiu, coccoi, moddizzosu, fogazza cun tamatiga, guttiau, pistoccu, tunda e zichi sono nell’elenco dei Pat – Prodotti alimentari tradizionali italiani approvato dal Ministero per le Politiche agricole.

Resistono poi panifici tradizionali o moderni: alcuni si sono specializzati nella produzione di pochi pani legati al territorio, altri hanno diversificato l’offerta anche in chiave turistica, altri partendo dalle tecniche tradizionali sperimentano e cercano continuamente sapori e profumi nuovi. Gambero Rosso, società editoriale specializzata in enogastronomia, ha inserito alcuni dei panifici isolani nella guida “Pane & panettieri d’Italia“. I migliori, secondo la guida, sono Kentos di Orroli, nato dall’idea di Viviana Sirigu e a conduzione familiare, che utilizza il grano “senatore Cappelli” e il lievito, ‘su frammentu’, tramandato da decenni dalle donne di casa; il panificio Stagnin di Carloforte, che punta sui pani tradizionali dell’isola e in particolare le gallette, la focaccia genovese, la farinata; Sa Moddixia di Genuri, che propone pani classici creati con grani antichi alternati a prodotti speciali. Tra le aziende segnalate da Gambero Rosso, infine, c’è Pbread di Cagliari, panificio moderno con un’attenzione particolare per materie prime, procedimenti, temperature di impasto, lievitazione e cottura.

Guarda il video: Pbread Natural Bakery – Quando il pane tradizionale si fa eccellenza

 

Francesca Mulas

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