Una storia antichissima, quella dell’attività mineraria in Sardegna. Gli archeologi raccontano che già  in un passato remoto i sardi avevano compreso la grande importanza di scavare la roccia per ricavare strumenti e utensili della vita quotidiana. L’ossidiana del Monte Arci, nella parte centro-occidentale dell’Isola in territorio di Oristano, animava i commerci del Mediterraneo sin dal Neolitico ed era usata come merce di scambio unica e preziosa.

Nei secoli i sardi hanno imparato a conoscere le ricchezze minerarie e a sviluppare tecniche di estrazione e lavorazione sempre più avanzate, ma è soprattutto dal Diciannovesimo secolo che l’attività ha avuto grande sviluppo e diffusione.

Oggi la grande industria mineraria, non più sostenibile e vantaggiosa per l’economia isolana, ci ha lasciato in eredità tantissimi siti dismessi. Ma se alcuni sono abbandonati, tanti altri sono diventati musei a cielo aperto, importanti testimoni di un passato neanche troppo lontano che vedeva nelle fabbriche un futuro radioso di crescita e sviluppo.

La miniera di Montevecchio, a pochi chilometri da Guspini, è nata sui filoni minerari di piombo, argento e zinco tra Guspini e Arbus. E’ uno dei gioielli dell’archeologia industriale nell’Isola; chiusa l’attività nel 1991, dal 1996 è entrata a far parte del Parco Geominerario della Sardegna e oggi si può conoscere grazie a un intervento di musealizzazione, visite guidate e a un grande archivio di immagini e documenti.

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Montevecchio, la miniera

Montevecchio, Pozzo Sartori

La storia della miniera di Montevecchio ha inizio il 28 aprile 1848, quando Carlo Alberto di Savoia, allora re del Regno di Savoia, firmò l’atto di concessione perpetua per lo sfruttamento della miniera in favore di Giovanni Antonio Sanna, imprenditore sassarese. Il progetto di sfruttare il sito sulle tracce dei filoni di galena argentifera e blenda portò dunque nell’area guspinese uno stabilimento che in pochi anni divenne una delle miniere più importanti e grandi nell’Isola e non solo, e grazie a macchine e tecnologia all’avanguardia arrivò a una produzione intensa con migliaia tra impiegati e operai. Un miraggio anche per gli uomini e le donne della zona, che abbandonarono il duro lavoro dei campi alla ricerca di più stabili e felici condizioni di vita. Non immaginavano, allora, che il sogno sarebbe stato ben diverso dalla realtà.

La miniera fu gestita dagli eredi Sanna fino al 1933, anno in cui venne venduta alla società Montecatini, e negli anni Settanta venne acquisita dallo Stato che ne affidò la gestione all’Eni. Le macchine si spensero definitivamente nel 1991: oggi possiamo visitare il borgo di Montevecchio con gli alloggi e gli uffici di dipendenti e impiegati, il dopolavoro e il cinema, e poi l’area della miniera con i pozzi di estrazione, gli stabili con cameroni e appartamenti per gli operai, la laveria, le officine e i capannoni.

Montevecchio, da miniera ad altissima produttività, è oggi un luogo della memoria che conserva ben visibili le tracce della vita dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati per ventiquattr’ore ogni giorno per un secolo e mezzo nell’estrazione dei minerali ma anche in tutte le altre attività attorno alla miniera. Un piccolo mondo che quasi bastava a se stesso, con spacci alimentari, artigiani che creavano o riparavano strumenti, utensili e mobili, operai che fondevano i pezzi di ricambio per i macchinari.

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Montevecchio

Oggi la visita è articolata per percorsi diversi.

Tra i più suggestivi che possiamo seguire c’è quello di Piccalinna, attorno al pozzo San Giovanni, con edifici in muratura a vista e le sale delle macchine. La torre del pozzo, un edificio in legno rivestito da mattoni, è l’ingresso che conduce al pozzo profondo quattrocento metri, dove si affacciano dodici gallerie di cui alcune ormai sommerse dall’acqua. Le gallerie erano raggiungibili tramite ascensori che servivano per trasportare gli operai e i vagoni con i minerari, mossi da un argano a bobine usato per oltre 100 anni, dal 1880 al 1991. Nella zona si può visitare anche la sala compressori dove è conservato “Sullivan”, un grande compressore industriale arrivato nel 1903 dagli Stati Uniti e ancora funzionante.

Nel percorso Levante si osserva un altro edificio simbolo di Montevecchio, il Pozzo Sartori, costruito nel 1941 in piena epoca fascista (il nome originario era “Pozzo Impero”); prese il nome dell’ingegnere che amministrò la società Monteponi dal 1935 al 1941 portando la produzione ai suoi massimi livelli: negli anni Cinquanta qui lavoravano 3750 dipendenti.

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Il Pozzo Sartori a Montevecchio

Dopo la fase dell’estrazione attraverso pozzi e gallerie, i minerali venivano selezionati negli spazi dedicati alla cernita, dove lavoravano le donne cernitrici finché il processo non venne meccanizzato; dopo la frantumazione dei minerali selezionati le polveri venivano mescolate con acqua, olio di pino e diversi reagenti chimici e infine lasciate decantare in grandi vasche, ben conservate e visibili ancora oggi.

 

Uno degli aspetti più significativi della Miniera di Montevecchio è la presenza degli alloggi per i lavoratori e le lavoratrici: gli operai potevano usufruire di piccoli appartamenti per la famiglia, bilocali con i servizi igienici in comune e senza acqua corrente né elettricità, mentre gli altri avevano posti letto dentro stanzoni comuni. Le condizioni di vita erano modeste e sempre durissime: si lavorava sin da bambini, già a quindici anni i ragazzi potevano essere mandati in galleria, e tutti venivano invitati a spendere il salario dentro il villaggio, dove, secondo quanto si legge nelle testimonianze dei minatori, il pane era più duro e anche più caro rispetto ai paesi vicini. Nel 1903 la miniera fu teatro di uno sciopero che coinvolse oltre 1500 persone e portò all’arresto di 18 operai; appena un anno dopo le rivendicazioni dei minatori si spostarono a Bugerru, vicino a Iglesias, e vennero represse con il sangue: l’esercito fece fuoco sui manifestanti uccidendone tre, in quella giornata che è divenuta tristemente famosa come l’eccidio di Buggerru.

Montevecchio è oggi un museo a cielo aperto, testimonianza di un’intensa attività mineraria che per oltre 150 anni è stata protagonista assoluta della vita e dell’economia di questo territorio. Ma custodisce anche la voce, l’anima e la memoria delle migliaia di bambini e bambine, donne e uomini che qui hanno vissuto e lavorato in condizioni durissime, inseguendo il sogno di una vita migliore.

Francesca Mulas

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