Una storia lunga 2500 anni, quella del sito archeologico di Tuvixeddu: la zona, che si estende per diversi ettari sul colle omonimo, è stata usata per ben otto secoli consecutivi a partire dall’età punica e fino al periodo imperiale romano. Con oltre 1700 sepolcri è una delle necropoli puniche più estese di tutto il Mediterraneo.

Oggi si può visitare all’interno di un parco con una spettacolare vista sulla laguna di Santa Gilla, e nonostante per tanto tempo sia stata usata come cava di una cementeria e poi tenuta in uno stato di degrado e abbandono, è eccezionalmente ben conservata.

Chi visita il sito, a cui si accede da via Falzarego, si troverà davanti una distesa fitta di sepolcri scavati direttamente sulla roccia calcarea del colle, spesso affiancati e paralleli, estesi in una fascia lunga un chilometro e mezzo: la città dei morti, a uso delle genti che qui vivevano sin dal VI secolo avanti Cristo e che avevano probabilmente dimora poco distante, dove oggi c’è la moderna via Brenta.

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Panoramica della necropoli di Tuvixeddu con vista della città

Sappiamo poco di queste genti: allora il Mediterraneo era al centro di intensi traffici commerciali che portavano i popoli a muoversi e raggiungere altre rive, e anche la Sardegna era meta di viaggiatori in arrivo da lontano. Così i Cartaginesi, discendenti dai Fenici che avevano fondato Cartagine presso la moderna Tunisi intorno al IX secolo avanti Cristo, nel tentativo di espandere la loro economia e il loro potere avevano raggiunto l’Isola e si erano insediati stabilmente nel Golfo di Cagliari, già abitato sin dalla preistoria.

E proprio il colle di Tuvixeddu, racchiuso oggi tra le vie Sant’Avendrace e Is Maglias, fu scelto come luogo di sepoltura.

Il sito può essere visitato solo seguendo percorsi e passerelle; accedere alle singole tombe,  attraverso lo stretto pozzo verticale profondo anche sette metri, è impossibile per questioni di sicurezza. Il pozzo porta a una o due camere scavate nella roccia, con pianta rettangolare e soffitti bassi, arricchite con nicchie o mensole.

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Necropoli di Tuvixeddu, Cagliari

La grande importanza della necropoli era nota dall’Ottocento, ma è con le prime indagini di Antonio Taramelli, soprintendente alle Antichità della Sardegna nei primi decenni del XX secolo, che venne studiata sistematicamente. Gli ultimi scavi risalgono agli anni Duemila, quando sono state indagate oltre settecento tombe. In attesa di strumenti multimediali che consentano di “entrare” virtualmente nelle camere funerarie, sappiamo dalle descrizioni e dalle immagini realizzate dagli archeologi che le tombe erano impreziosite da decorazioni scolpite nella roccia (non solo modanature e cornici, ma anche rami, palme e fiori, o segni astrali come il disco del sole o la falce lunare, o il simbolo di Tanit); in alcuni casi anche dipinte con ocra rossa, con disegni di linee, losanghe, quadri, raggi, spesso a incorniciare le porte o seguire il profilo di pareti e soffitto. Il colore nelle architetture funerarie puniche non è una novità cagliaritana dato che si ritrova anche nell’area di Cartagine, ma la grande varietà di combinazioni decorative di Tuvixeddu è “unica e assolutamente priva di confronti”, come scrive l’archeologa Donatella Salvi nel volume “Il tempo dei Fenici”, edito da Ilisso nel 2019.

Le due tombe più famose, quella dell’Urèo e quella del Guerriero (o del Sid), ce le descrive l’archeologo Carlo Tronchetti nella “Guida archeologica di Cagliari” pubblicata da Delfino editore nel 2003: la tomba dell’Urèo, conosciuta dagli anni Settanta, mostra sulla parete di fondo un dipinto con un serpente alato sormontato dal sole, erede di un’iconografia egizia fatta propria dai Fenici e poi da Cartaginesi, racchiuso tra due fiori di loto e due gorgoni, maschere dall’aspetto demoniaco che nell’antichità avevano il potere di scacciare gli spiriti maligni; nella stessa camera ci sono fasce in ocra rossa con palmette e fiori di loto.

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L’archeologo Carlo Tronchetti

Quella detta del Guerriero mostra una decorazione complessa in rosso e azzurro: nella parte alta della parete fregi di cerchi, e poi tre nicchie dove linee e losanghe incorniciano il disegno di tre betili; su una parete, l’immagine che da il nome alla tomba: un uomo barbuto e protetto da un elmo crestato, a petto nudo, raffigurato nell’atto di scagliare una lancia. La figura, secondo Tronchetti, sarebbe molto simile a quella del Sardus pater venerato al tempio di Antas, a Fluminimaggiore. Entrambe le sepolture risalgono ai secoli IV-III avanti Cristo.

A Tuvixeddu oggi si conoscono 1793 sepolcri (ma forse erano oltre duemila), di cui 1571 (1094 a monte, 477 a valle) sono stati risparmiati dall’attività di cava che ha danneggiato parte del sito; le tombe puniche a pozzo sono circa 1200, le altre sono di età romana.

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Tuvixeddu, vista aerea della necropoli

Le sepolture rimaste indenni dai numerosi scavi clandestini hanno conservato fino a noi corredi funerari che accompagnavano i morti nell’aldilà. Rispetto al contemporaneo sito archeologico di Tharros, nella costa oristanese, a Tuvixeddu sono stati trovati materiali più modesti: ceramiche di tipo punico ma anche greche a vernice nera, e poi gioielli e monili oggi esposti al Museo Archeologico nazionale di Cagliari come ciondoli, amuleti, anelli, scarabei in oro e pietre dure con figure umane e animali.

Gli archeologi hanno trovato anche piccoli oggetti di uso quotidiano: uno specchio con manico in osso, una coppia di cimbali, contenitori per il trucco, frammenti attribuiti a strumenti musicali, ceramiche per contenere unguenti e profumi.

Una testimonianza silenziosa, suggestiva e monumentale, quella del sito archeologico di Tuvixeddu, che insieme ai suoi corredi funerari e alle sue architetture ci racconta la vita delle genti che  vivevano due millenni e mezzo fa sulle rive della laguna.

Francesca Mulas

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