Nell’ammirare un quadro l’occhio dell’osservatore è attratto fulmineamente dalle tinte forti, dai tratti decisi e poche volte si sofferma a contemplare quelle sfumature alle quali l’ideatore dell’opera più ha prestato attenzione, riflessione e dovizia di particolari, e dalle quali emerge il vero significato di ciò che desidera esprimere. In maniera analoga le cose conosciute maggiormente riportano su sé stesse la nostra attenzione lasciando nell’ombra dettagli all’apparenza insignificanti, in realtà ricchi di senso.

 

Il nero cupo della visera che ricopre il volto del mamuthone e il bronzo sfavillante dei campanacci che tale maschera porta su di sé unito al rosso vivo del corpetto dell’issohadore appartengono a quell’insieme di tinte forti che immediatamente colpiscono il visitatore che si appresti a conoscere Mamoiada, un ridente paese di collina situato nel cuore della Barbagia di Ollolai. Le sfumature migliori si colgono prima dell’ingresso al paese, in quello scintillio di colori offerti dall’abbraccio dei vigneti che lo circondano e che già lasciano intendere della grande laboriosità di questo centro barbaricino.

 

Il territorio si estende per 4900 ettari, in parte estremamente accidentato con notevoli dislivelli e formazioni granitiche, in parte ricco di sorgenti naturali, corsi d’acqua, terreni a pascolo e a colture. Numerosi, dunque, i vigneti che sostengono le attività più fiorenti: la produzione di ottimi vini e formaggi. La presenza di tali risorse ambientali ha attratto insediamenti umani sin dal neolitico e pre-neolitico con una varietà di tracce archeologiche di particolare rilevanza.

 

I segni di antichissime civiltà sono abbondantemente presenti nel territorio; numerosi nuraghi, prevalentemente a struttura lineare, nelle zone più fertili e in vicinanza di sorgenti. Attorno ad alcuni di essi si trovano evidenti tracce di villaggi. Si possono ricordare quello di Arràilo, zona sa Pruna, sulla strada per Orani, Orgurù, sulla strada per Fonni, Monte Juradu, sulla strada per Sarule, il più importante per estensione ed imponenza e che lascia supporre la sua centralità in quella vasta parte del territorio. Numerose sono le Domus de janas dette ’Oncheddas, delle quali maggior interesse suscitano quelle de Istevène, sulla statale Mamoiada-Fonni, gruppo di sei domos che presentano una testa di toro schematica in rilievo.

 

Ma se queste torri dai giganteschi massi e queste piccole tombe scavate nella roccia caratterizzano tutto il territorio insulare, Mamoiada custodisce all’interno del centro abitato un tesoro che non trova riscontro nel resto dell’isola: infatti nella periferia del centro urbano, a Boeli, è venuta alla luce nel 1997 una lastra istoriata con centri concentrici e coppelle. Questa stele, detta Sa Perda Pintà, è alta circa 2.70 m. e interrata per circa 30/40 cm. con una larghezza massima di circa 70 cm. Presenta numerosi cerchi concentrici e coppelle, la più grande della quali ha un diametro di 20 cm.

 

Altre due lastre istoriate sono presenti nel territorio, ma non sono pervenute integre. Minimi gli studi fatti in materia, solo alcune supposizioni ricondurrebbero i simboli al culto della Dea Madre, portatrice di fertilità e abbondanza. Di certo finora si sa che tale fenomeno è piuttosto diffuso in tutta l’area celtica, dalla Scozia all’Irlanda, dal Galles alla Gran Bretagna. La loro presenza è segnalata anche in Colorado, in Galizia, in Bolivia, in Perù e in Venezuela.

 

Un altro punto di contatto con il resto del mondo Mamoiada vorrebbe trovarlo nell’America meridionale, da quando, nel 1951, il giornalista Nino Tola, in seguito ad indagini personali, tentò di far coincidere la figura del presidente dell’Argentina Juan Peròn, con il giovane emigrante mamoiadino Giovanni Piras. Le numerose testimonianze e documentazioni sono state oggetto di pubblicazioni (Juan Peron – Giovanni Piras. Due nomi una persona, di Peppino Canneddu e ¿Donde nació Perón? Un enigma sardo nella storia dell’Argentina, di Gabriele Casula) che dànno al lettore la possibilità di effettuare un’attenta riflessione e trarne proprie conclusioni.

 

Emerge maestosamente il legame di questo paese con il resto del mondo nel ritmo della danza  cadenzata dal suono dei campanacci ed eseguita attorno alle fiamme di un grosso fuoco realizzato in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, nata in tempi remoti come rito propiziatorio per la nuova annata agraria e che dà avvio ai festeggiamenti del carnevale.

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Dolores Turchi sostiene che il carnevale di Mamoiada ”è un rito agrario derivante dalle antiche religioni misteriche dei paesi del Mediterraneo. È un Carnevale misterioso, tragico, simile ad una sacra cerimonia. E cerimonia doveva essere un tempo, quando la passione e la morte di Dioniso, dio della vegetazione e dell’estasi, veniva rappresentata come in un teatro all’aperto, lungo le vie  del paese,  dove ancora  sfilano  i Mamuthones, le  maschere dionisiache coperte di pelli, che da millenni ripetono la stessa danza, ritmata dal suono dei numerosi campanacci che si scrollano sulle spalle.  Un suono cupo, lugubre, che vuole allontanare gli spiriti del male, ma vuole ricordare anche il sacrificio del dio che si fa vittima, per morire e rinascere ogni anno, come la vegetazione nei campi. Le maschere dei Mamuthones sono tradizionalmente dodici, come i mesi dell’anno, e si avviano, col loro passo di danza zoppicante, verso il sacrificio, cui sono destinate. Le accompagnano otto guardiani, detti Issohadores, che si muovono con agilità, tenendo in mano il laccio mortale col quale catturare le vittime, se queste tentassero di sottrarsi alla loro sorte.” (Maschere, miti e feste della Sardegna, Newton Compton, 1990).

 

Questa ritualità assume oggi un significato notevole, tanto più se ci si rende conto dei valori che la nostra cultura ha perso nel corso della sua evoluzione. Eppur tace un pericolo da tenere in giusta considerazione, come sottolinea il primo cittadino di questa comunità, Graziano Deiana: quello della rappresentazione di una parte che non appartiene più all’intimo sentire di coloro che la portano avanti, una tradizione svuotata del suo autentico significato. La cultura di un luogo non vive disgiunta da ciò che quel luogo sa esprimere in maniera spontanea e nemmeno può sperare di crescere e migliorare se si dimostra incapace di aprirsi al mondo e di confrontarsi con esso.

 

Nelle parole del sindaco affiora tutta la consapevolezza di una cultura, quella isolana in generale e quella mamoiadina in particolare, sottoposta a cambiamenti rapidi e incessanti e che stanno conducendo a delle trasformazioni che non lasciano nemmeno riflettere coscienziosamente. Cambiamenti che hanno portato alla perdita della centralità della pastorizia in questo territorio. E la perdita o riduzione drastica di tale attività implica numerosi problemi, di natura economica, culturale e ambientale, giacché la costante presenza del pastore in questi territori non potrà essere facilmente sostituibile.

 

Quasi a sopperire ad un così grave problema, la strada del turismo pare favorire la nascita di un nuovo tipo di economia. L’amministrazione punta a sviluppare un turismo intelligente capace di accostare armoniosamente tutto ciò che il territorio offre: le produzioni alimentari, come i dolci (papassinu biancu, papassinu nigheddu, cocone in mele, caschetas, amaretos) dove l’ingrediente principale è la mandorla, accompagnati dall’ottimo vino cannonau che si produce nelle diverse località che circondano il paese, o i formaggi e i salumi, i lavori artigianali quali antichi mobili, cassapanche tradizionali, le maschere dei Mamuthones prodotte nei piccoli laboratori dei maestri artigiani del paese insieme a tutti gli eventi di natura culturale che animano la vita del piccolo centro.

 

Già con l’apertura del Museo delle maschere mediterranee, negli anni ’90, il paese ha mostrato capacità di apertura e di confronto, realizzando una moderna struttura in grado di stimolare la curiosità del turista. Il primo impatto col Museo si ha con una sala multivisione, dove in un triplice schermo vengono proiettate le immagini dei momenti più significativi del carnevale mamoiadino. Il tutto accompagnato da una colonna sonora costituita di suoni, di musiche, di espressioni tratte dalla vita quotidiana del paese.

 

La sala espositiva ospita dieci maschere appartenenti alle zone interne dell’isola (oltre a Mamuthones e Issohadores, Boes e Merdules di Ottana e un Thurpu di Orotelli) e si arricchisce di maschere provenienti da Slovenia, Trentino, Croazia e Bulgaria. In occasione dei prossimi festeggiamenti in onore di S. Antonio verrà inaugurata la nuova ala del museo. Nella ricca cornice di eventi legati a questa festività si inserisce perfettamente il Premio letterario Sant’Antoni ’e su o’u, nato nel 1992 con l’intento di contribuire al mantenimento della lingua madre, con la consapevolezza che il cuore delle nostre realtà culturali vive nella lingua.

 

Un’altra struttura che vedrà presto la luce sarà il Museo della cultura e dell’identità che dovrà fungere da tramite tra la cultura e il lavoro del paese, una maniera per raccontare in pochi ambienti ciò che esiste realmente nel territorio, per rendere manifeste le attività quotidiane dei personaggi illustri del paese, che il sindaco identifica con tutti i cittadini, i pastori e i contadini che hanno messo a disposizione le loro conoscenze per far crescere il paese. Una crescita attuatasi grazie alla vitalità culturale e realizzata con il contributo di tutti, giovani e meno giovani, associazioni culturali e di volontariato. Punti di riferimento fondamentali sono la biblioteca comunale, il centro di aggregazione e la ludoteca.

 

L’idea dello sviluppo di un tipo di turismo intelligente può anche fare leva sulla presenza nel territorio di alcuni monumenti non trascurabili. Per ciò che concerne l’aspetto architettonico, l’emblema di Mamoiada è rappresentato dalla Chiesa di Nostra Signora di Loreto, di probabile origine medievale.

 

Tra le chiese campestri, oltre a quella di Loret’Attesu, risalente alla seconda metà del XVIII secolo, restaurata di recente, notevole importanza riveste il santuario dei SS. Cosma e Damiano, a 6 Km dal paese. Alcuni studiosi ritengono che sia il più antico di tutta la Barbagia e si suppone risalga al VII secolo d. C.. Se la festa di S. Antonio rappresenta un rito propiziatorio per la nuova annata agraria, quella che si svolge in questo Santuario campestre, il 27 settembre, rappresenta la conclusione di quell’annata. Peculiarità del santuario sono le cinquanta Humbessias che lo circondano, destinate ad accogliere i pellegrini che vi si recano nei tre mesi estivi per soggiornare e per assistere al novenario in onore dei santi.

 

All’interno del centro abitato inoltre sono visibili le tracce della presenza militare romana. Il rione Su ’astru ha un nome che ricalca quello che i Romani davano ai loro piccoli presidii: Castrum. E pure di derivazione latina è, secondo gli studi realizzati dal Prof. Pittau, il nome stesso del paese: Mamoiada (nei documenti medievali anche Mamoyata e Mamujata) deriverebbe da mansio o statio manubiata, cioè ”fermata o stazione sorvegliata”. Data la sua posizione strategica  lungo la strada Ulbiam-Caralis, è probabile che i Romani abbiano avuto nel paese un presidio militare permanente.

 

Fondamentale capire le proprie origini, conservare le proprie tradizioni in un’ottica di apertura verso il mondo che ci circonda. Vitale sentire profondamente e custodire la propria identità, nonostante i venti distruttori di un’epoca tesa all’omologazione, malgrado le false promesse di una politica disinteressata ai problemi della gente, e a dispetto degli odierni grilli parlanti che si preoccupano di realizzare studi e convegni sul pastoralismo lasciando morire colui che è l’anima di tale cultura.

 

Ce lo ricorda chiaramente Francesco Masala nel suo romanzo Quelli dalle labbra bianche ciò che continua ad accadere nel mondo, sia pur esso circoscritto alla realtà dei nostri villaggi: ”Era la solita storia di Arasolè: i mammutones, i vinti, i prigionieri, venivano condotti, come sempre al loro destino”.