nuraghe serbissi osiniChe la Sardegna non sia solo mare lo avverte anche il turista più distratto che approda nell’isola per la più breve delle vacanze balneari, naturalmente collocata nei mesi estivi (luglio e agosto) in cui il fascino di un bagno ristoratore nel mare limpido e trascolorante della Sardegna è accentuato dalla necessità di sfuggire alle giornate terribilmente afose offerte dal clima delle regioni continentali ( la eccezionalmente torrida  estate del 2003, da questo punto di vista, non sarà facilmente dimenticata).

 

Contro la frettolosità e l’epidermicità di un tale contatto (esteso, nel migliore dei casi, a una conoscenza della fascia costiera) i Circoli degli emigrati sardi svolgono senza interruzione una campagna di sensibilizzazione e di incoraggiamento turistico-culturale che è fin troppo facile etichettare con lo  slogan ”Sardegna: non solo mare”.

 

Gli stessi Circoli non si nascondono le difficoltà che si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo di far cambiare le pigre abitudini del turista di massa. Bisogna, cioè,  in ogni caso  prendere preliminarmente atto della realtà: forzando (ma solo un po’) il titolo di un famoso libro di viaggio dello scrittore inglese David Herbert Lawrence intitolato Sea and Sardinia (Mare e Sardegna), si può dire che per l’opinione comune ”mare è Sardegna”. Per questo motivo, è evidente che  la tutela dell’ecosistema dentro e attorno alla nostra isola (ciò che può avvenire opponendosi anche all’ultima minaccia: l’ipotesi di stoccaggio definitivo, nel territorio isolano,  delle scorie radioattive prodotte dalle centrali nucleari operanti nella penisola ) è un dovere inderogabile di tutti i sardi, residenti e non residenti, che hanno a cuore il futuro della propria terra  e le possibilità di un suo  sviluppo economico legato all’accrescimento dei flussi delle ”correnti” turistiche.

D’altra parte, è giusto però perseverare nel tentativo di far intravedere al turista  anche occasionale la suggestione di ciò che va al di là   delle preziosità naturalistiche delle coste sarde.

 

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Anche al  turista più disattento, se lascia  le coste e si  inoltra verso l’interno dell’isola di Sardegna, non sfugge la verità esposta dal poeta  Tonino M. Rubattu in un  componimento intitolato ”Frìmmati, furisteri”: S’ides su nuraghe/ in sas alturas/ chi dae sempre/ gherrat cun su ’entu, / frìmmati, furisteri, un momentu/ ca che ses dadu in sa Terra mia (Se vedi il nuraghe / nelle alture / che da sempre / lotta contro il vento, / fèrmati, forestiero, un momento / perché sei capitato nella mia Terra).

La presenza del nuraghe è quindi uno dei tratti distintivi, inconfondibili, del paesaggio dell’isola di Sardegna.

 

Per rimanere ancora al punto di vista di un poeta sardo (in questo caso il ploaghese Larentu Ilieschi, che ha raccolto una parte dei suoi versi in Campanas a repiccu, a cura di Paolo Pillonca, Edizioni Della Torre,  1994), dato che appunto a Ploaghe si dice Runaghe e non Nuraghe, la conseguenza a livello di interpretazione etimologica sarebbe la seguente: Cumprendo ch’est a ponner una mina/ a sa tesi de calchi iscenziadu/ chi affirmat ch’est nur sa raighina./ Su nomen de runaghe bi l’han dadu/ cuddos chi l’hana connotu in ruina,/ non sos antigos chi l’han fraigadu (Capisco che è come porre una mina / alla tesi di qualche scienziato / che afferma che è nur la radice./ Il nome di runaghe gliel’hanno dato / quelli che l’hanno conosciuto in rovina,/ non quelli che l’hanno costruito).

 

Notevoli e quindi degne di essere conosciute sono le testimonianze letterarie che nel Novecento  alcuni scrittori italiani e stranieri (quindi ”forestieri” rispetto alla Sardegna) hanno lasciato sui nuraghi. Vediamo come essi hanno ricostruito l’identità dell’isola e dei suoi abitanti attraverso l’osservazione di queste costruzioni, in forma tronco-conica,  di grossi massi sovrapposti a secco, come recita la neutra definizione dei vocabolari.

 

Andiamo  in ordine cronologico.

Il saggista  e giornalista Nino Savarese  ( Enna 1882 – Roma 1945), nella raccolta di scritti di viaggio, 1930-1932, intitolata Cose d’Italia e ripubblicata da Sellerio nel 1991, si occupa anche della ”solitudine della Sardegna”. Dei nuraghi scrive: ”Sono disseminati per tutta l’isola: se fossero più vicini, o tutti accostati in un punto, formerebbero una città misteriosa che potremmo popolare di eroi o di fantasmi. Ma non vollero formare una città, ebbero fastidio di far nascere, tra loro, vie che facessero risuonare le voci dei loro abitatori e il suono delle officine, dove si fabbricavano armi di ossidiana e statuette votive. (…) Dopo qualche ora di cammino, che ce ne eravamo già dimenticati, sopra un’altura, nel mezzo di una valle,  accanto a un corso d’acqua, o in vista del mare, ecco ancora un nuraghe! Sembrano sfuggiti alla custodia della storia; la scienza è impotente a chiudere questi ruderi nelle spire delle argomentazioni, lasciandovi magari, a guardia, degli inservienti gallonati. L’intimità di queste strane case non è stata violata, con la mole delle loro pietre esse voltano le spalle agli uomini e si allontanano nella solitudine”.

 

Un altro scrittore siciliano, ben più famoso di Savarese,  Elio Vittorini, nel settembre 1932 fece un viaggio in Sardegna che gli ispirò la prosa di Sardegna come un’infanzia (la prima edizione è del dicembre 1936): ”Tutti i nuraghi  che ho visto, per me non hanno interesse interno. Piuttosto presenze misteriose, nella campagna, ho sentito il loro fascino e l’ho subìto alle loro coniche apparizioni di pietra sopra pietra; e non più del fascino disumano di certe croci che ho visto sulla strada di Nuoro – immense -: patiboli anzi che segni di Dio; o di certi piccoli cimiteri recinti da siepi di fichidindia in fiore, d’una fioritura vermiglia”.

 

Si occupa  dei Nuraghi (con la maiuscola) anche il giornalista Virgilio Lilli nel  volumetto  ( stampato, dopo essere rimasto inedito  per oltre sessant’anni, per la prima volta alla fine del 1999  da Carlo Delfino Editore di Sassari con scritti di Gabriella Contini, Manlio Brigaglia e Giuseppe Fiori) intitolato Viaggio in Sardegna e vincitore ex aequo  del concorso letterario del 1932 per il miglior resoconto di un viaggio in Sardegna,  insieme al sicuramente più conosciuto  Sardegna come un’infanzia di Elio Vittorini.

 

Scrive Lilli: ”Ecco a tratti compaiono i coni massicci e granitici dei Nuraghi. Oscuri, grevi, barbari ed  elementari, questi grossi pagliai di pietra stanno posati sulla terra come enigmi fatti concreti. Nelle loro pance ad imbuto, nelle quali ristagna l’ombra come un’acqua, c’è un silenzio di macigno, un’atmosfera da sepolcro. Penetrarci è come  se si entrasse in grossi catafalchi, le pietre sanno di sarcofago, le pareti sono concave  come quelle delle botti, c’è un clima di cantina e di fortezza, un sapor di galera, un’aria archeologica, da antiquari, preistorica, inintellegibile. (…) Il Nuraghe è forse la costruzione più solitaria che io abbia incontrato. Più solitaria delle piramidi d’Egitto, più solitaria delle Sfingi (….) Dal fondo del Nuraghe, che si va man mano restringendo a cono in altro attorno ad un foro, ch’è al vertice – come nei mausolei – si vede un cielo lontano e perduto come i cieli che devono sognare nei cimiteri i trapassati. Esso somiglia stranamente ai nidi delle termiti. Ci ha qualcosa della tomba, qualcosa della fortezza, qualcosa dei forni. Talvolta sono recintati da muretti, e a doppia, a triplice parete nell’interno, come se si trattasse di tre campane – di grandezze in iscala – sovrapposte. Sono forniti di altissimi e difformi gradini da scimmie, sedili di pietra, cocci. Sono costruiti secondo regole edilizie primitive e pesanti con pezzi di granito sovrapposti a secco, senz’ombra di malte o cementi, il loro colore è il colore sudicio anonimo e grigiastro delle rovine, dei ruderi, dei fori romani, delle caverne preistoriche”.

 

Così invece si esprime Carlo Levi in Tutto il miele è finito (edizione Einaudi; nella parte del diario riferita al  viaggio in Sardegna effettuato nel 1952): ”Dentro al nuraghe c’è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza intervento dell’immaginazione o sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell’infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza. Ben protetti da queste mura gigantesche, se ne sentono tuttavia gli indeterminati terrori, e il senso della arcaica crudeltà di quegli uomini arcaici, asserragliati  nelle torri, in una natura crudele. La misura stessa delle pietre, quei venti conci aggettanti che  chiudono il cerchio del muro è lontana dalle nostre misure, e gigantesca. E la forma dell’apertura, che non è una porta, né il vano di un ingresso, ma una stretta fessura a un metro dal suolo, che costringe ad entrare strisciando orizzontali, dà l’impressione che in quegli strani edifici, sparsi per i monti di Sardegna a testimoniare la sua più antica civiltà, non si potesse entrare o uscire che  morti”.

 

In un poco conosciuto ”Diario sardo”, raccolto insieme ad altri scritti nel volume Napoli N.N. (Vallecchi,   1974), lo scrittore e poeta Alfonso Gatto (che nel 1955 curò una serie di servizi sulla Sardegna per il settimanale ”Epoca”) annotò: ”Su questi altopiani tagliati netti nel cielo come piattaforme, i protosardi, i piccoli e ostinati guerrieri dei nuraghi, costruirono le proprie fortezze e i propri villaggi circolari, così incisi e forti da dare ancora oggi il brivido della vita che li animò. Sembrano fatti con giudiziosa fermezza e insieme con la precisa pazienza degli insetti. Grossolani come fornaci di calce a prima vista, imprevedibili per altezza e monumentalità, si rivelano poi calcolati sulla stessa misura degli abitatori che vi si trovarono, portando le feritoie all’altezza delle braccia, stringendo e adeguando le muraglie alla penetrante sottigliezza del proprio passaggio. Chi è stato in un nuraghe, chi c’è stato davvero, dall’alto e dal basso riunendo nell’impressione l’immagine infinitamente grande e infinitamente piccola di quelle architetture secche, non potrà più dimenticare un senso di sgomento fisico e di tetra dignità che tocca il cuore. Siamo riportati alle origini, alla nascita degli umani accorgimenti, alla rivelazione di gesti che si ripetono, si provano, si associano per dar forma e luogo al lavoro e alla vita”.

 

Il filosofo tedesco Ernst Jünger, in Terra sarda (cito dall’ edizione Il Maestrale del 1999), si occupa approfonditamente delle origini dei nuraghi  (”Certo,  non è poco significativo che gli antichi attribuiscano agli Eraclidi il vanto di aver eretto i nuraghi: senza dubbio esiste una connessione tra questi edifici e il fiorire di una patriarcale civiltà di pastori”) e delle funzioni dei nuraghi (”Il  nuraghe è una fra le  cellule germinali dell’architettura d’Occidente. Ciò si fa particolarmente visibile nei complessi architettonici costituiti da raggruppamenti di torri. Mentre il nuraghe isolato dev’essere servito come quartier generale e base logistica nelle lotte intestine e tribali, le fortificazioni più fortemente munite indicano il formarsi di alleanze destinate a fronteggiare una minaccia dall’esterno”).

 

Jünger si sofferma anche sulla forma del nuraghe: ”La forma del nuraghe richiama un mondo al di fuori della storia, immerso nel sogno. Ancora oggi questo edificio sembra coronare, come spuntato dal suolo, le arrotondate sommità del territorio montano che il pastore attraversa guidando la sua mandria. La sua rotondità, che ricorda un’anfora o una coppa, ha tratti femminili; s’innalza da un paesaggio che ci dobbiamo immaginare disseminato di capanne tondeggianti, di cisterne e di forni dalla forma di alveare, e del quale le necropoli erano i  complessi edilizi di maggiore rilievo. (…) Là dove si uniscono più nuraghi emergono elementi sistematici di progettazione: in primo luogo, la concezione angolare, che mostra il sorgere del pensiero astratto e dell’agrimensura che ad esso è strettamente legata. L’esempio ideale è offerto dalla fortezza nuragica Su Nuraxi  preso Barumini, con la quale ebbero inizio nel 1949 gli scavi del professor Lilliu”.  

 

Vale la pena di accostare queste riflessioni di Jünger a quelle che lo  scrittore francese Dominique Fernandez ha affidato alle pagine di  Madre mediterranea (volume uscito in Francia nel 1965 e tradotto in Italia presso Mondadori nel 1967): ”Per arrivare sulla giara di Serri, siamo passati dal villaggio nuragico di Barumini, il più completo che rimanga della civiltà del primo millennio. Si vedono spesso, isolate nella campagna sarda, quelle torri corpulente chiamate nuraghi, fatte di blocchi di pietra sovrapposti a secco. L’interno è percorso da un dedalo di corridoi e di scale. Questi monumenti rotondi dovevano servire sia come residenze per i capi, sia come fortezze in cui il villaggio si rifugiava in caso di guerra, sia, al piano superiore, come luoghi di culto. Oggi offrono riparo a greggi, e forse alle primitive paure dei pastori, che ritrovano in questo rifugio oscuro e circolare l’immagine lontana della torre primordiale, dell’andito originale della vita”.

 

La civiltà nuragica, come sappiamo, non è rappresentata soltanto dai nuraghi ma anche dai ”templi a forma di pozzo”. Ecco come, con parole emozionanti per tutti i lettori nativi dell’isola di Sardegna, Fernandez, al quale si deve l’osservazione che i sardi ignorano la forma circolare (e quindi di fatto sono rimasti ”insensibili per epoche intere alla suggestione dell’anca e del seno”), collega le caratteristiche del ”tempio a forma di pozzo” e quelle del nuraghe all’unicità ancestrale della ”madre mediterranea”: ”Il tempio a forma di pozzo occupa il centro del villaggio. Ora è otturato, ma rimane ancora abbastanza profondo da permettere a chi discende i gradini e si addentra nella terra di immaginare i riti dell’antico culto dell’acqua. Che sgomento, che angoscia dinanzi al misterioso scintillio, ben più simile a una lucente lama di metallo che al molle sorriso di una fontana! Come la rotondità del nuraghe non è la sdilinquita indulgenza della madre per la sua creatura, ma la forma naturale del ventre prima della nascita, così l’acqua che brillava nel pozzo era un’acqua anteriore a tutte le dolci emozioni che essa procura ai popoli più civili, un’acqua legata al corpo materno della terra, un’acqua-corpo senza freschezza bucolica e quasi senza liquidità”.

Da tutte queste preziose pagine d’autore è come se ci giungesse un invito a tutelare, insieme,  i nuraghi, l’acqua del mare di Sardegna, ma anche l’acqua  “legata al corpo materno della terra”.

 

Tutto questo è in sintonia con una dichiarazione dello scrittore sardo Giuseppe Dessì: ”Non so più nemmeno se il mio sia amore oppure fastidio, rabbia di essere  nato là, di essere legato, di rimanere legato per tutta la vita a una terra tanto vecchia e tanto lontana dal mondo nel quale vivo. Eppure quella è la mia piccola patria. Là sono diventato uomo, là è la mia gente: case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte, più intelligente, anzi onnisciente. Se immergo la mano nell’acqua della Spendula, o del Rio Manno, so di che cosa è fatta quell’acqua. (…) Là mi sono sentito al centro dell’universo come un astronauta. È per questo che sono geloso della mia terra, della mia Isola, e odio tutto ciò che può renderla volgare”.