Se fosse un regista sarebbe Emir Kusturica, se fosse uno scrittore Gabriel Garcia Marquez. Invece è un musicista nato in un quartiere popolare di Alghero, e si chiama Favata: Enzo. Lui è uno che nel mondo dei suoni ama entrarci proprio dentro, come una rondine nel suo nido, alla ricerca di quelle sensazioni che solo un viaggio attraverso il tempo può dare: affrontando l’arcano e il futuro senza peso, come una nota musicale che percorre l’universo infinito. Si può parlare di realismo magico anche per lui, allora, per l’autore di ”Voyage en Sardaigne”, di ”Atlantico”, di ”Boghes and Voices”, di ”Made in Sardinia”, dei mille e mille concerti in giro per il mondo.

 

–Com’è iniziata la sua avventura?

Ormai è quasi venticinque anni che calco i palchi, ma la verità è che ho preso in mano il sax proprio per caso. Si, è stato un disco a fulminarmi. Lo ascoltai un pomeriggio d’estate a casa di un mio amico, un ragazzo che faceva le stagioni in Inghilterra e che perciò, dato che lì i dischi costavano poco, era il nostro importatore di suoni. Quel ”My favorite things” di John Coltrane, il padre del sassofonismo moderno, mi fece innamorare del jazz. Un disco che tra l’altro ho ancora, completamente consumato.

 

Qual era la situazione musicale sarda in quegli anni?

L’Isola era il deserto dei Tartari, almeno per quanto riguardava lo studio della musica e i concerti. Se questo mio viaggio è stato così profondo, come d’altronde quello di un’intera generazione di musicisti sardi sulla quarantina e oltre, è per quella voglia matta di conoscere e suonare una musica che qui non sapevamo manco cos’era. Bisognava partire fuori per trovare gli insegnanti giusti, i dischi, i libri, per sentire i concerti. Oggi è diverso, la situazione è migliorata enormemente, però…

 

Manca ancora qualcosa?

Beh, se consideriamo la musica come prodotto esportabile, diciamo che da noi ci sono splendidi talenti ma insufficienti venditori. Basta pensare alla dimensione del mercato musicale irlandese per farsi un’idea. L’Isola deve imparare a vendere la sua immagine anche diffondendo la sua musica nel mondo, ne avrebbe grandissimo riscontro.

 

Che rapporto c’è tra i musicisti esteri e l’Isola?

Ottimo. Quando ho fatto Aiò – un ponte sonoro tra Sardegna e Argentina che ripercorre la storia della migrazione sarda nel continente sudamericano – ho collaborato con Dino Saluzzi, il più grande maestro di bandoneon. Mi chiese: ”Com’è la Sardegna?” E io: pietra e vento. Allora lui, che è andino, mi rispose: ”Sembra sarda la mia città natale”. Infatti quando venne da noi percepì un’energia positiva talmente familiare che sentì di essere a casa. I Sardi poi – penso a Paolo Fresu, Antonello Salis, Riccardo Pittau, Elena Ledda – gira la voce che musicalmente siano i negri d’Europa. Proprio per il loro soul, la loro grande anima.

 

Che suono ha la Sardegna per lei?

Il suono del vento e dell’acqua, il suono del fieno secco che lievemente si muove. Spesso l’Isola è stata presentata come splendida, piena di colori e di profumi, ma muta. E invece possiede un mondo sonoro unico. C’è come un’energia speciale che esce dalla terra e dà all’ispirazione degli artisti una marcia di cui pian piano scopriamo la forza.

 

Qual è la poetica musicale di Enzo Favata?

Lavorare a 360 gradi. Se si possiede la tecnica per manipolare i suoni si riesce a mettere in comunicazione i diversi linguaggi. Il fatto principale è trovare quel pensiero universale che attraversa le varie discipline, la chiave per connettere i circuiti invisibili che collegano il mondo. Spesso, per dirne una, è stata la letteratura a darmi l’ispirazione: in ”Voyage” mi sono immerso nei grandi viaggi a piedi tra i viottoli che usavano i pastori durante la transumanza, in ”Atlantico” nelle storie narrate dai miei autori sudamericani preferiti. Ma gli esempi sono tanti…

 

Cos’è che la diverte?

Tante cose. Fuori dal palco mi intriga realizzare i paesaggi sonori. Ne ho fatto uno a Isili nel museo del rame con sedici stazioni. Sono stato quattro mesi a registrare i vecchi ramai, le loro voci, le tessitrici con i microsuoni degli aghi e dei fili. Mi appassiona molto anche la fotografia, oppure collezionare gli strumenti musicali a fiato di tutto il mondo. Penso di averne ormai centocinquanta. Ma se devo dire la verità, a due cose non rinuncerei mai e poi mai, cascasse il mondo. Il giovedì grasso devo immancabilmente essere a Gavoi per suonare il tamburo coi miei trecento fratelli tumbarinos. Il lunedì dopo la domenica delle Palme invece corro dai miei fratelli cantori a Castelsardo per la processione dei misteri: tutto il giorno cori a cuncordu e poi un bellisimo spuntino sui prati.

 

Dischi, concerti, colonne sonore per cinema, teatro, danza, fiction, documentari, pubblicità, l’organizzazione di Musica sulle Bocche tra Sardegna e Corsica, mille altre cose: ma le è rimasto un sogno da realizzare?

Chi sogna crea, perciò desideri ne ho ancora tanti. Ogni volta che mi vedrete fare qualcosa non sarà altro che la messa in pratica di tutti i miei piccoli sogni.