“[…] sono una migrante, e lo dico con estremo orgoglio perché andarsene e scegliere di ricostruirsi altrove non è facile, è un percorso che è fatto anche di rinunce e di sacrificio, e la soddisfazione è tanta quando raggiungi i tuoi traguardi e tanto è il disgusto per chi vive di muri e filo spinato e non di ponti” (da Diversamente migranti, blog “Mulini a vento”, 19 agosto 2015). Così scrive Stefania Calledda, poetessa e scrittrice di origini sarde. Stefania è nata a Nùoro nel 1982 e si è laureata in Scienze Politiche all’Università di Cagliari nel 2010, con una tesi storica dal titolo Gramsci giornalista: profili storici e teorici”. Dopo la laurea ha cambiato orizzonte, trasferendosi a Vicenza. Da molti anni Stefania si occupa di volontariato e, in particolare, è responsabile dal 2014 della categoria Giovani e Donne FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) dell’Associazione Culturale “Grazia Deledda” di Vicenza, di cui oggi è consigliere. Sempre per l’associazione “Grazia Deledda”, attualmente sta curando il progetto culturale “La Sardegna è un’altra cosa – un insolito viaggio nell’isola”. È inoltre consigliere della Fondazione SMuovilavita onlus. Nel 2006, ha pubblicato per la Casa Editrice Il Filo la poesia L’apnea, presente nell’antologia “Navigando nelle parole” vol. 23. Ha scritto per La Riflessione Editrice l’appendice a “Lettere dal carcere” e la prefazione a “La Questione Meridionale”, entrambe raccolte di testi del filosofo Antonio Gramsci; ha curato, inoltre, una rubrica sulla rivista “Lettere dal fronte” – edita dalla medesima casa editrice – affrontando il tema della malattia in una prospettiva filosofica che pone al centro della questione la diversità come valore. Sempre per La Riflessione, ha pubblicato la raccolta di poesie Attimi d’abisso nel 2008 e, nel maggio 2012, la seconda silloge dal titolo D’altri naufragi. Nel gennaio 2013, la sua tesi di laurea specialistica ha ricevuto la menzione per la pubblicazione nell’ambito della XIII edizione del Premio Gramsci, indetto dall’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales, ed è stata pubblicata l’anno seguente nella relativa antologia. È reperibile in rete con il suo blog personale “Mulini a vento” e attualmente collabora con Edizioni Saecula di Zermeghedo (VI), casa editrice specializzata in Storia.
“Siamo partiti dalla Sardegna con l’auto stracarica e pochi soldi in tasca, quanto necessario per sopravvivere in una terra lontana”. Questo è un cenno sul tuo blog alla tua partenza dalla Sardegna verso il Veneto. Perchè questo progetto che aveva comunque un orizzonte di ‘sopravvivenza in una terra lontana’ (ti eri allora da poco laureata)? Cosa cercavi o meglio cosa non bastava più in Sardegna? Cosa pensi di aver perduto? Cosa, al contrario, non rimpiangi?
Non ti parlerò di nostalgie, non ti dirò che la Sardegna mi manca e che non vedo l’ora di tornarci. Sono andata via dalla Sardegna con un senso soffocante di claustrofobia, una realtà che sentivo chiusa e di cui sentivo il peso della costrizione, sapevo che l’Isola non mi avrebbe dato le opportunità che cercavo, e infatti, paradossalmente la Sardegna mi dà di più oggi che non ci abito, di quanto potesse farlo al tempo. La Sardegna resta una Madre al cui seno tutti i sardi si sono alimentati per restarne sempre figli, ma a volte abbiamo necessità di partire per avere una casa alla quale di tanto in tanto poter tornare.
Che aspetto ha l’Italia, il Nordest in particolare, avendo il mare alle spalle? Te lo chiedo anche alla luce delle tue stesse parole, che possiamo trovare sempre nel blog, per cui “ogni ritorno nell’isola è un travaglio”?
Sono andata via con la consapevolezza delle problematiche sociali, politiche, economiche della mia terra, non ne ho una visione mitica, offuscata magari dalla componente affettiva, razionalmente ho scelto di darmi delle possibilità diverse, migliori, e scusa il gioco di parole, ma ho semplicemente scelto di poter scegliere, cioè, di non dover necessariamente vivere e morire dove sono nata, disegnando un percorso che in qualche modo pareva già scritto, ho scelto l’ignoto perché venendo a Vicenza non sapevo se lì sarei rimasta o in quale altra parte del mondo sarei finita, ho voluto che le mie radici non fossero catene, ma rappresentassero quella solidità che mi permettesse di andare ovunque, perché ovunque io resto sarda. E ogni volta che torno in Sardegna è un ripetersi dello strazio per cui me ne sono andata, perché i problemi restano, la situazione peggiora, l’Isola è sempre più disabitata, privata di prospettive di crescita, in mano a una classe dirigente miope, supina, tra negligenza e volontà passiva in cui questione sarda e questione meridionale restano il dramma mai risolto, funzionale a una certa dinamica di potere: possibile che ancora questo non lo si capisca e non lo si voglia denunciare? Ovviamente no, credo che questo che stiamo vivendo sia uno dei periodi più bui della Storia. Adoro Vicenza, pur con tutti i suoi difetti e limiti, ci sto bene, per certi versi mi pare di essere tornata a Nuoro, circondata dalle montagne e il muso duro dei suoi abitanti che, passata la diffidenza, ti accolgono.
Quale valore ha per te il tuo impegno nell’Associazione Grazia Deledda di Vicenza’? Cosa miri a conservare del vostro essere sardi? Cosa ti auguri di riuscire a condividere?
Gramscianamente ritengo che è compito di chi ha avuto la possibilità di avere una formazione culturale più approfondita e più ampia donare queste conoscenze e questo saper fare nella grande ambizione di poter lasciare la stessa consapevolezza, lo stesso traguardo di intenti a una collettività, è un dovere morale che al di là dell’impegno per la Sardegna avrei sentito comunque. La Sardegna è stata ed è ancora una delle periferie del mondo, in cui pesano tutte quelle dinamiche secolari per le quali insiste in quel territorio un sottosviluppo inaccettabile. Al contempo, la Sardegna ha un patrimonio ambientale e storico unico al mondo che è necessario preservare, ma per fare questo è, ripeto, un dovere morale alimentarne la coscienza nei sardi e nei non sardi.
Come nasce il progetto “la Sardegna è un’altra cosa”? Quali le differenze che miri a mettere in luce?
Pensando a quale contributo avrei potuto dare all’Associazione, mi sono resa conto che sopravvivevano della Sardegna troppi stereotipi, una visione dell’Isola svuotata e povera, perciò mi sono data il compito di mostrare il caleidoscopio di una terra che come scrive Marcello Fois “non è un’isola, ma un Continente”, con mille sfaccettature di una ricchezza incommensurabile. Ecco, sempre riprendendo le parole di Fois, non volevo che la Sardegna rimanesse solo la “ciambella delle vacanze”, mi piaceva l’idea che a volte si percepisse che anche “In Sardegna non c’è il mare”.
Il blog che tieni da qualche tempo è intitolato Mulini a vento. Da dove ha origine il nome del blog?
Probabilmente si sarà già evinto che tendenzialmente ho “la sindrome del Don Chisciotte”, ma, come scrivo anche nel blog, in me sopravvive una lotta quotidiana tra il mio Don Chisciotte e il mio Sancio Panza interiori. L’aspetto utopico mi accompagna da sempre e se non fossi stata così combattiva nel raggiungimento dell’impossibile non avrei mai ottenuto ciò che si è dimostrato possibile. Troppe volte ci sembra di combattere contro i mulini a vento, ma non lottare significa perdere in partenza.
Quando è nata la tua passione per la scrittura? Come si decide di condividere un genere di scrittura così intimistico e trasparente come la poesia e come la stesura di un blog che, correggimi se sbaglio, somiglia molto a un diario pubblico?
C’è stato un episodio, nella mia adolescenza, che mi ha fatto scoprire la forza della scrittura, come le parole possano rompere lo status quo, c’è un potere rivoluzionario insito nella scrittura, nell’arte, che non sempre riusciamo a percepire appieno. In quel momento ho capito che avevo un’enorme possibilità di riscatto, un’opportunità eccezionale che potevo utilizzare per me e per gli altri. La mia scrittura è solo apparentemente intimistica, io non parlo di me nell’esclusivo intento di sfogarmi o esternare il mio mondo interiore, insomma, parlare di me, chi se ne frega. Io mi faccio mezzo per lanciare delle suggestioni, chiedo al mio lettore di riflettere su certe tematiche, il soggetto sfuma per mediare argomenti di altro e più significativo spessore. Il mio è un approccio alle cose che proviene dalla mia formazione storico-filosofica, io scompaio per farmi categoria, dinamica, osservatore, analizzatore. Io sono il mezzo e non lo scopo della mia scrittura.
Nel blog dici “io scrivo per necessità fisica e intellettuale”. Facendo un bilancio di tutti questi anni di frequentazione con la scrittura, trovi sia per te più salvezza o più maledizione?
Una domanda da un milione di dollari. Non mi è ancora chiaro e probabilmente, essendo una necessità, non ha importanza, è, esiste, fa parte di me, non potrei fare altrimenti.
Le tue raccolte di poesie titolano Attimo d’abisso (2008) e D’altri naufragi (2012) e, ancora, Apnea è il titolo della poesia pubblicata in Navigando nelle parole. Impossibile non cogliere questa frequente metafora ‘liquida’, marina. Immagino sia riduttivo spiegarla solo con il tuo essere figlia di un’isola. Dove affonda le sue radici questa lettura?
Nell’introduzione di D’Altri naufragi ho scritto che i sardi hanno un rapporto ambivalente con il mare, da una parte è il confine che ti cinge e chiude, e dall’altra parte è un’apertura verso il mondo, l’ignoto, ma anche la speranza. L’acqua, da sempre nella storia delle civiltà, è vita, evoca il materno, la fecondità: ecco che evocare tutto questo metaforicamente ci riporta al significato più profondo di quello che scrivo, ovvero l’amore per la vita, l’umanità, il dovere morale e l’impegno quotidiano verso gli altri, un senso collettivo di condivisione che traspare nel disgusto verso la violenza e la sopraffazione. Tutto riporta ad un unico filo rosso che congiunge ogni mia espressione, in una visione continuamente dialettica, perché per me è dialettica la realtà.
La scrittura è indubbiamente scrigno per conservare, imprimendo gli eventi sulla carta si evita che essi scompaiano del tutto. Qual è il tuo rapporto con la Storia e con la memoria, anche individuali?
Io sono da sempre appassionata di Storia, studiarla, analizzarla, entrare nei meccanismi che si sono succeduti nel tempo è per me emozionante, oltre che piacevole. La Storia ci dà le chiavi di lettura per leggere il presente e ancora una volta, rischiando di essere ripetitiva, è l’amore per l’umanità, l’esistenza, a spingerti verso questa passione. Sapere da dove vengo, quali siano i passi che ci hanno condotto fino a qui, mi aiuta a comprendere il significato della mia esistenza, dell’esistenza. Essendo atea, le risposte della religione non sono per me accettabili, io scelgo un percorso più complicato, tra scienza e filosofia.
La malattia è tua compagna di vita da molti anni. Quali limiti ha implicato e sopratutto quali sfide ti ha permesso di mettere in campo?
Alzarmi ogni mattina e iniziare la giornata è già una sfida. Tutto è una sfida quando hai una malattia cronica, progressivamente invalidante, se hai delle disabilità e uno stato di salute che peggiora e sai che peggiorerà, non esiste nulla che non sia una conquista. Vivi senza dare nulla per scontato, i limiti sono tanti, sempre di più, sai che in salute avresti potuto fare e dare di più, ma sei consapevole di aver fatto anche troppo, di fare ogni giorno anche troppo. E io sono una che non si dà pace, che fa fino allo sfinimento, che non si dà tregua perché abbiamo poco tempo per lasciare un’impronta che ci sopravviva.
Sempre nel blog paragoni la depressione a un naufragio. Quanto credi che il tuo essere donna abbia giocato un ruolo nel tuo viaggio di consapevolezza, nel tuo salvarti dalla deriva? E quanto invece credi sia esso stesso a condannartici?
Non so se tu sia consapevole, ma adotti un metodo dialettico anche nella tua intervista e ti rispondo che da un punto di vista dialettico salvezza e dannazione dialogano per arrivare a una sintesi che è appunto il vissuto quotidiano di ogni donna. Essere donna mi porta ad avere uno sguardo verso le cose intese nella loro complessità e mutevolezza. La donna è generalmente più incline al cambiamento perché lo vive sulla sua persona molto più dell’uomo, perciò siamo capaci di accogliere il divenire e da un naufragio, da una catastrofe riuscire a ricostruire.
Restando in ambito metaforio, credi che i tuoi studi filosofici ti abbiano dotato di un’ancora di salvezza?
La conoscenza soprattutto, la conoscenza ci rende più ricchi, ci rende migliori.
La figura di Gramsci, che ha coronato il tuo percorso di studi, è quasi quella di un mentore, per te. Quali le ragioni della tua stima per l’uomo e il filosofo, il politico e lo scrittore, se differiscono?
Credo che la grandezza dell’uomo, lo spessore intellettuale, le capacità politiche e di analisi di Gramsci siano ormai cosa assodata. Io ho passato la mia adolescenza a leggere le sue opere, cioè in quel momento della vita in cui si forma la personalità. Dopo, con più strumenti e con maggiore maturità, l’ho potuto apprezzare di più. Certo, con l’arrivo della malattia ho saputo mettermi nei suoi panni, nella sua sofferenza, e questo mi ha aiutato a leggere oltre il suo coraggio, a sapere cosa significa la costrizione fisica, la convivenza con il dolore. Se non si capisce questo, Gramsci lo si legge a metà.
Quale ritieni sia oggi il rapporto tra politica e cultura? E quale auspicheresti che fosse, invece?
Inutile dirti che per rispondere a questa domanda dovrei attingere al patrimonio gramsciano, al concetto di egemonia e intellettuale organico. Per farla breve, finché la cultura sarà strumento per legittimare lo stato di cose presenti, il dominio di una parte sull’altra, finché sarà esclusione, staticità di dinamiche di potere, allora non ci sarà progresso. Vorrei invece che si scardinasse tutto ciò, che la conoscenza fosse il grimaldello che apra a nuovi percorsi, e tutto questo è davvero sana attività politica, diversa dallo squallido rapporto clientelare che s’instaura tra politica e società.
Link di riferimento: http://www.stefaniacalledda.it/
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