I pensatori dell’Accademia non risolveranno mai i problemi della civiltà sarda finché rimarranno irrigiditi in un ragionamento “ad una dimensione”, secondo cui la civiltà sarda può essere acclarata soltanto in virtù della civiltà romana, quasi che prima di Roma la Sardegna vivesse nell’assoluta barbarie. E così siamo stati avvezzi a credere che la Sardegna sia soggetta, da sempre, all’antico calendario romano, il che non è vero, perché i Sardi ebbero il proprio calendario millenni prima che alcune capannucce apparissero sul Palatino.
I Latini (i progenitori dei Romani) avevano, al pari della Sardegna, un calendario lunare. Fu Numa Pompilio, a quanto si tramanda, ad aver portato il calendario romano a 12 mesi nel tentativo di farlo coincidere col corso annuale del sole. Ai suoi tempi risale dunque il nome romano del quarto mese, Aprīlis, la cui etimologia fu inseguita cervelloticamente da parecchi. La si paragonò anche ad Afrodite, nome della dea greca dell’amore, non tenendo conto che Afrodìte fu conosciuta molto tempo dopo. Altri attinsero al nome etrusco Apro, ma s’arenarono senza spiegarlo. Marco Terenzio Varrone (De origine linguae Latinae, 6,33) pensò ad Aprīlis come “quod ver omnia aperit”, “perché la primavera apre tutte le cose”, e dimenticò che la primavera comincia a Marzo.
Noi riusciamo ad affrancare la Sardegna dai beceri tentativi di “furto d’identità” soltanto se ripartiamo dal più antico nome sardo del mese, che è ARBÌLE. Allora tutto s’acclara. La semplicità intuitiva, la perfezione dell’identità, si rispecchiano nella scoperta che il nome del quarto mese dell’anno riposa nell’ebraico ‛arbà ‘quattro’, in accadico arbaʼu ‘quattro’.