Ora che mi trovo “nel mezzo del cammin di nostra vita…” ho idee più definite rispetto a quando ero ragazzo. Voglio continuare ad insegnare e ad imparare, a tradurre, a leggere, a scrivere, a cantare, a suonare, a giocare, a passeggiare, ad innamorarmi… So che da qualche parte Penelope mi aspetta. Penelope non è solo una donna, significa Itaca-Ichnusa, una domus e dei bambini da crescere, dal momento che ho già piantato un albero e scritto un libro…
Si presenta così Filippo Melis, nato a Quartu S. Elena (CA) quarant’anni fa. Da undici anni risiede a Girona ad un centinaio di chilometri da Barcellona. Torna in Sardegna almeno quattro volte all’anno.
Che Natale o Pasqua sarebbero se non fossi con i miei nell’isola del vento?
Conseguita la maturità classica, Filippo si è laureato in Lingue e letterature straniere a Cagliari. Dopo poco più di un anno, è partito per la Catalogna.
“Mi sono sempre dedicato all’insegnamento e alla ricerca universitaria, concretamente alla filologia, alla linguistica e anche alle traduzioni. Posso affermare che ogni giorno lontano da casa è, sotto diversi punti di vista, una nuova avventura ed un’opportunità di crescita personale, culturale e professionale. Tuttavia, se volessimo dare uno sguardo anche all’altra faccia della medaglia, vedremmo subito che la solitudine e la nostalgia sono state e continuano ad essere protagoniste assolute. Chiunque sia nato su un’isola, mi capisce al volo. I gironini hanno un’indole estremamente chiusa anche nei riguardi di chi come me parla catalano e non ha difficoltà di socializzazione. I compagni di viaggio sono stati altri emigrati che si trovavano nella medesima situazione. Più che emigrato, mi considero un esule. In lingua spagnola esilio si dice destierro, un termine che mi affascina perché contiene in maniera più immediata ed efficace l’idea di allontanamento dalla propria terra. Di conseguenza, desterrado è tragicamente più forte del suo corrispettivo italiano esule”.
Prima di raccontare il suo percorso nella scrittura e nella poesia, Filippo ama introdursi così.,
Ci tengo a riportare le parole di Archiloco che secondo me ha dato la definizione più calzante di poesia: “il piacevole dono delle muse”. Non è fantastico? Diciamo che mi piace catturare e poi liberare i miei pensieri imbrattando d’inchiostro fogli bianchi. Non so se ciò sia poesia o solo un divertimento. Ad ogni buon conto, ho sempre amato i versi fin da piccolo. Se escludiamo i primi timidi esordi risalenti alle scuole elementari, posso affermare che ho cominciato a comporre in maniera cosciente durante l’adolescenza e grazie allo studio di poeti assoluti come Dante e i classici di lingua latina e greca, che in un certo senso sono stati maestri e mi hanno indicato la via. Se escludiamo il sommo fiorentino, che usa la rima in maniera sublime, tutti gli altri fanno ricorso ad altri artifici retorici (allitterazione, paronomasia, chiasmo, iperbato, ossimoro). Nei miei componimenti le rime sono usate con estrema parsimonia; preferisco “giocare” con la lingua e imitare i classici e i loro virtuosismi. Quella del poeta è un’occupazione particolare: mi è capitato di comporre versi a tutte le ore del giorno e della notte. Avverto una forza dentro di me che mi detta quello che devo scrivere. Devo scrivere e devo farlo in quel momento. Quando la musa ti bacia non puoi ignorarla. Per quanto riguarda i temi, parto da fatti concreti (personali o no) o storici. Nella prima raccolta, che è autobiografica è un po’ come se avessi compilato un diario di bordo in cui parlavo dei porti principali che ho toccato dal 2011 al 2014. C’è la mia città osservata dall’alto mentre tornavo per le vacanze estive (Cagliari è immersa nell’azzurro del cielo e del mare), oppure un’immagine della Sardegna che mi viene in mente mentre sono in Catalogna e sono preso dalla nostalgia. Stessa cosa vale per le persone, ci sono emozioni legate all’incontro con l’altro. Non mi è mai capitato di sedermi a tavolino e decidere di concepire una poesia con determinate caratteristiche. Non sono io che scelgo lei, è lei che sceglie me. Nel momento in cui percepisco quella forza che mi detta il poema, io sono un mero scrivano. Naturalmente, capita di rileggerlo e di apportarvi delle modifiche, ma generalmente scrivo in bella grafia, come se si trattasse davvero di un dettato. Ma non è sempre così, a volte c’è la ricerca di un preziosismo…”
Filippo Melis ha pubblicato due raccolte di versi. La prima, Mare e amare – Mar y amar (2011-2014), raccoglie liriche in edizione bilingue italiano-spagnolo.
“Come anticipa il titolo, è composta da poesie d’amore (e disamore) con il mare che fa da sfondo ed include anche una sezione riservata a dieci traduzioni mie di alcuni grandi poeti portoghesi e catalani, fra cui Fernando Pessoa, Salvador Espriu ed Eugénio de Andrade. L’autore, novello Ulisse, esule nostalgico, vive un intenso, struggente desiderio di riunirsi alla sua terra natale, varcando quel mare nostrum che gli è ora amico ora ostile. Il viaggio, l’omerico nostos, da e verso la tanto agognata “Ichnusa-Itaca” è fatto di separazioni, ritorni, nostalgie e di un amore immutabile ma include anche un’odissea interiore, che fa approdare l’io lirico in alcuni porti. Incastonate tra i versi il lettore può trovare numerose citazioni di Omero, Archiloco, Saffo, Orazio e Virgilio. L’amore per la propria isola è al contempo passionale, struggente e malinconico. Nel percorso tracciato emerge una personalità intimamente legata alla città del sole, all’isola del vento, alla spiaggia del Poetto e a quel mare che sa essere interlocutore paziente e saggio dispensatore di consigli. Dopo averlo snobbato per tanto tempo ho ricucito il rapporto da qualche anno, soprattutto con il mare in inverno quando la spiaggia è deserta e il maestrale fa la voce grossa. Allora adoro passeggiare sulla riva, ascoltarlo o sfogarmi con lui. Il mare è empatico, capisce la tua sofferenza e ti parla con voce d’onda. Spetta a te capirlo.”
La seconda opera, AQVA (Non ci sarà la morte), è dedicata alla strage del Vajont del 9 ottobre 1963 con prefazione della giornalista milanese Lucia Vastano.
“L’“Aqua” di cui parlo ha un nome femminile dolce e terribile. Le radici di questo libro risalgono al 2009 in seguito alla visione del film di Renzo Martinelli “Vajont: la diga del disonore” che mi ha colpito e turbato profondamente. Collegavo erroneamente il Vajont ad una disgrazia naturale. Ho scoperto che i veri responsabili della strage erano stati gli uomini, resi ciechi dalla loro cupidigia e dall’hybris, quella tracotanza contro cui si scagliava Sofocle nel suo capolavoro Antigone. Ho provato subito empatia nei riguardi delle vittime, ma anche rabbia, sgomento e indignazione e le lacrime di quel dolore antico che provavo sulla pelle viva mi hanno fatto capire come in realtà questo lutto lo avessi sempre avuto dentro e che da quel momento la mia missione fosse quella di parlarne in modo da perpetuare ed esercitare la memoria. Il libellus è diviso in due parti. La prima è composta da trentacinque poemi. I primi trentatré sono dedicati ai luoghi in cui quel maledetto 9 ottobre 1963 si abbatté l’onda funesta che causò la morte di circa duemila innocenti. I restanti due hanno come tema principale rispettivamente il ciclone che ha colpito la Sardegna nel novembre del 2013 e causato la morte di sedici innocenti; e tutte le altre stragi e disgrazie legate all’acqua che hanno causato negli ultimi tempi morti innocenti e disastri immani sia in terra sarda che in altre regioni. Queste ultime due poesie parlano, dunque, anche se in termini non esclusivi, del rapporto di amore e odio della mia terra con la protagonista di questo libercolo. Anche da noi, purtroppo, come in moltissimi altri luoghi, l’acqua ha portato gioia e distruzione. Come appendice alla prima parte, ho aggiunto dieci traduzioni mie di poemi di autori a me molto cari di lingua spagnola, polacca e portoghese in cui l’acqua è ritratta come un elemento benigno e portatore o dispensatore di amore. Alcune di queste poesie vedono per la prima volta la luce in lingua italiana. Nella seconda parte del libro, intitolata Testimonianze, sono stati inseriti i ricordi, i pensieri e le opinioni di alcune vittime e di altre persone che, pur non avendo preso parte direttamente alla strage, hanno a cuore la storia della valle del Vajont e dei suoi abitanti e lo hanno dimostrato nel corso degli anni con il loro impegno personale e professionale.”
La chiusura della nostra intervista non può che essere uno sguardo a quella madre-matrigna vissuta da lontano.
“In Mare e amare – Mar y amar (2011-2014) il mio rapporto con l’isola è fondamentale, giacché tratto il tema del destierro, dell’esilio che, seppur volontario, è una ferita dolorosa e sanguinante. So bene cosa significa stare lontano da Ichnusa, contare i giorni che mi separano dal prossimo viaggio, non riuscire a prendere sonno la notte prima della partenza e la notte in cui arrivo finalmente a casa. L’emozione s’impossessa di me quando comincio a scorgere tra greggi di nubi le nostre coste e lo sconforto mi assale quando l’aereo si stacca dalla pista e mi riporta lontano. Anche questo è amore. Da oltre un decennio sono altrove solo fisicamente, giacché i pensieri e la mia mente sono sempre e solo lì, tra le querce piegate dal vento o sulle rive baciate dal mare. E proprio il mare nostro, il Mediterraneo, ha sancito l’inizio del mio viaggio dalla Sardegna alla Catalogna, un’odissea in salsa sarda, in cui l’io poetico come l’eroe omerico cerca di tornare nella sua isola.”
Il commiato è uno sguardo al domani dell’isola del vento.
“Il futuro della nostra terra è nelle nostre mani. Sogno un paese in cui si parli e si scriva in sardo, un sistema scolastico efficace, un’economia legata al turismo e ai prodotti che sono frutto della cultura millenaria. Un turismo serio e all’avanguardia che conviva con le tradizioni senza snaturarle o ridurle a fenomeni folkloristici privi di significato. Immagino una classe politica finalmente all’altezza del suo compito, formata, presente e attenta ai cittadini. Naturalmente, ciò non significa che dobbiamo delegare e poi lamentarci, ma agire in prima persona, impegnandoci seriamente e coinvolgendo tutte le forze in campo. Non vedo l’ora che arrivi il momento in cui i nostri giovani non saranno più costretti a lasciare casa e famiglia per andare a lavorare altrove. Questo è il futuro che desidero e che voglio costruire.”
Ringrazio Filippo e vi rimando al suo sito www.acquaevento.eu