Ascolta queste parole e raccontale ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli, e ai figli dei figli dei tuoi figli, perché così è stato. Non voglio pensare a come far uscire vocaboli ammansiti, ma voglio gettarli come mazzi di stelle nel firmamento, alla rinfusa, quasi per caso, come per caso un dio, nella notte dei tempi, creò questa terra in mezzo al mare. Isola unica tra le altre, slegata dalle altre, non comparabile. Non c’è nessuna che possa competere con lei. Altre sono belle, accarezzate dal mare, che lambisce le rupi e la sabbia, sbriciolata da mani possenti, ma nessuna è come lei l’orma del piede di un dio.

 

Non dirò quale dio. Non pensare che non lo sappia, figlio mio, ma la conoscenza non può essere detta. Nessuno degli abitanti di quest’isola lo dice, ma tutti lo sanno, in fondo al cuore, il segreto delle origini. No, non lo posso dire e pronunciare, perché ogni sospiro si secca in gola e solo dopo ti dirò perché. La sua orma ha a che fare con il tempo e come sai il tempo è famelico, una fame incontrollata, cieca, distruttiva. Per questo noi abbiamo imparato a ingannarlo quel dio, il più crudele di tutti, e non ci siamo fidati di chi diceva di averlo spodestato, e proprio per questo abbiamo superato in consapevolezza qualsiasi altro popolo.

 

Sapere è acuire il dolore, mascherato dal riso, il nostro riso amaro, di chi ha svelato l’enigma. Sto ridendo anche adesso, figlio mio, carne della mia carne, ridendo della fandonia che ci hanno raccontato, come se il tempo potesse essere arrestato, blandito o addirittura sconfitto. Sto ridendo di chi credette a questa fandonia. Chi inventò quest’immane menzogna? Lo fecero gli uomini impauriti e tutti ci credettero. Tutti, ma non noi. Ti spiegherò questa notte il segreto dei Giganti e quando verrà il giorno, allora, solo allora, potrai scegliere anche tu se credere o non credere alle mie parole, accompagnate da una folata di maestrale o di scirocco, disperse nei millenni che seguirono, e rivelate come un oracolo che parla, attraverso la meraviglia delle semplici cose. La naturale grandezza di un favo d’api  o il prodotto delle mani degli  uomini, come quest’arco teso verso l’orizzonte o questa spada a difenderti dai nemici o questo fuoco rubato al cielo, così importante per cuocere il cibo o scaldare il corpo e il cuore. Queste cose parleranno con la mia voce, ma sarò pronto a farmi da parte, perché saranno loro ad esprimere se stesse.

 

Ti dirò anche della sacralità dell’acqua. Nessun altro popolo ha esaltato così tanto quest’elemento fluido, sfuggente, quasi immateriale, così simile al tempo. Sinuoso negli alvei dei fiumi, portatore di vita, quando scende dal cielo a gocce misurate e benefiche; portatore di morte, quando decide di sfondare gli argini e soffocare la terra, per mostrare quale elemento comanda sull’altro. Acqua che noi abbiamo domato, facendola diventare nei pozzi sacri lo specchio del cielo. Anche in questo siamo stati guidati da un dio, anche in questo non abbiamo rivali. Prova ad andare nel pozzo vicino al nuraghe in direzione del sentiero di pietra, quando l’autunno è alle porte e le foglie diventano gialle, rosse, color oro, il giorno stesso in cui i raggi del sole sono perpendicolari a una striscia tracciata nel mezzo del nostro pianeta.

 

Quel giorno prova a scendere i gradini del pozzo con il groppo in gola e stai attento a ogni istante a soffocare la tua attesa. Allora vedrai il prodigio dei prodigi. Vedrai il tuo corpo diventare un’ombra nella parete del pozzo, ma ti scorgerai capovolto: tu, proprio tu, starai a testa in giù a pelo d’acqua. Potresti urlare dallo spavento, tramortito da quella rivelazione, cadere nel pozzo ed essere inghiottito per sempre. Tanti uomini nei secoli hanno conosciuto se stessi in quel momento: siamo quel che siamo, ma anche un doppio. La rivelazione è dolore e gioia, giorno e notte, luce e buio, salita e discesa, vita e morte. L’enigma del tempo non appare mai tanto chiaro come in quell’istante. Un attimo eterno e terribile.