Con un articolo pubblicato sull’Avanti il 22 aprile dell’ormai lontano 1922, Antonio Gramsci diede conto ai lettori del quotidiano socialista d’un discorso pronunciato in sardo dal generale di corpo d’armata Carlo Sanna. Il fatto – scrisse  Gramsci – avvenne a Torino, dopo una parata militare, davanti ad ufficiali e soldati della Brigata Sassari e del 22° Cavalleria. E quando il generale  concluse l’intervento la truppa esplose in un coro di urrah!, sebbene – come sottolineò lo stesso Gramsci – i soldati del 22° non avessero capito proprio nulla. Gli applausi, in ogni caso, fornirono la conferma che  il  generale  era uno dei comandanti più popolari ed osannati, sia tra i fanti “continentali”, sia tra i “sassarini”, che addirittura lo avevano soprannominato “Babbu Mannu”.

 

La cronaca di quel 22 aprile riveste, al di là d’ogni ulteriore considerazione, una notevole importanza soprattutto se si prende atto che ci introduce alla questione de sa limba. Ed in particolare, che ufficializza un record del generale Sanna, in quanto certifica, per la prima volta in occasione d’una cerimonia ufficiale, un discorso tutto sardo.

 

Ma quanti – viene subito da chiedersi – hanno seguito quell’insegnamento e si sono presentati, anche nei momenti più solenni, come interpreti diretti del popolo dei nuraghi? A livello ufficiale, ad esempio nell’aula del Consiglio regionale, il conteggio si esaurisce tranquillamente sulle dita d’una mano. E in questo esiguo numero è compreso chi si è limitato a citare qualche frase in limba, oppure a riesumare qualche proverbio. Comunque sia, onore al merito per tutti  coloro che il sardo non lo hanno ripudiato o relegato alle faccende meno impegnative, quasi  che l’uso dell’idioma natio costituisca un’automatica diminutio nella scala dei valori.

 

I ricordi di Antonio Gramsci, riportati di recente nel volume Scritti sulla Sardegna (Ilisso, a cura di Guido Melis), sono la controprova che ci si può tranquillamente esprimere in sardo e ricevere in cambio scroscianti ovazioni. Così come capitò al consigliere regionale Giuseppe Masia il 28 febbraio del 1978, quando venne chiamato – come decano – a celebrare in aula il trentennale dell’Autonomia. Dapprima ebbe ampi consensi, poi vennero, da parte di alcuni sepolcri imbiancati, che si riscoprirono partigiani acritici della lingua italiana, altrettante riprovazioni.

 

Resta il fatto che Masia fu il primo, nell’aula del Consiglio regionale della Sardegna, a proporre, attraverso l’uso della lingua materna, tutto l’orgoglio della sardità, unitamente alle ansie, alle attese, alle speranze tradite. E quei sentimenti di assoluto amore per l’isola, che salgono “dae sas intragnas”, che pervadono ogni essenza di noi sardi, che prorompono dal nostro essere più intimo e profondo, lo convinsero ad utilizzare quelle parole, che aveva assorbito assieme al latte materno e fatte sue nella natia Pozzomaggiore.

 

Secondo lo storico e giornalista Manlio Brigaglia, “quell’exploit non era solo un occasionale omaggio alla questione della lingua, allora così attuale”, ma piuttosto “un ricordo degli anni animosamente sardisti della sua giovinezza”. Valutazione assolutamente esatta se di Masia si esaminano, seppure brevemente, i trascorsi giovanili. Militante delle Acli, vicinissimo all’Azione cattolica, era legato da profonda e fraterna amicizia con Pietro Fadda, anche lui di Pozzomaggiore, anche lui laureato in legge e fratello di don Angelico, che sarà per entrambi guida spirituale ed allo stesso tempo maestro di dottrina social-cristiana. A Cagliari, dove erano stati alcuni anni da militari nei primissimi anni ’40, sia Masia che Fadda avevano conosciuto tra gli altri i fratelli Casimiro ed Ignazio De Magistris anch’essi convinti fautori d’una azione tutta orientata al sociale. Ma è nel loro paese, a Pozzomaggiore, che crebbe e si radicò la loro esperienza di cattolici militanti, nutrita da altre amicizie (ad esempio, quella di don Salvatore Fiori, grande oratore, malvisto dalle gerarchie ecclesiastiche per i suoi atteggiamenti poco ortodossi) e da una visione futura della Sardegna che sconfinava nell’aspirazione separatista.

 

Vale la pena, a questo proposito, di riesumare un episodio che si consumò nell’autunno del 1943, quando il “Gruppo di Pozzomaggiore” chiese ed ottenne di conferire a Cagliari con i vertici dell’amministrazione militare alleata. Della delegazione facevano parte don Angelico, il fratello Pietro e Giuseppe Masia; più un giovanissimo insegnante d’Alghero, Gavino Paolini, che diventerà un apprezzato giornalista per le sue collaborazioni ad un quotidiano cagliaritano ed alla Rai e per il suo costante impegno in difesa dell’amata cittadina catalana. L’incontro, forse perché gli alleati percepirono le robuste inclinazioni indipendentiste dei quattro interlocutori, si concluse con un nulla di fatto: in pratica un secco no di fronte alle richieste d’una spinta di autonomia da concedere alla nostra Isola. In seguito Giuseppe Masia aderì alla Democrazia Cristiana (e stesso percorso seguì Pietro Fadda), ma rimase evidentemente immutato il suo “pensare sardo”, sempre e comunque.

Altrettanto può dirsi per altri consiglieri regionali, tra i quali è d’obbligo citare Battista Isoni, barbetta caprina, intelligenza vivace, famoso per essere stato per quarant’anni sindaco di Monti, il suo paese, e per i molteplici interventi in qualità di “emissario” nel periodo dei  sequestri. Isoni, che fu anche assessore regionale al turismo, almeno in un’occasione tenne un discorso nel suo melodioso logudorese e non  celò mai l’ innata propensione  “pro sa limba”. E persino un presidente, Pietrino Soddu,  non disdegnò le esternazioni in sardo, anzi le usò per dare più eleganza e più vigore ai suoi interventi in aula, sempre coinvolgenti, sempre impregnati di citazioni colte. Quando perorava maggiore impegno e velocità nell’azione di governo ammoniva, per evitare il peggio,  che se non si chiude per tempo “sa jaga, si che perdet sa roba”, ovvero “se il cancello resta aperto, il bestiame sparisce”. Oppure, per invitare tutti ad un sano pragmatismo, teorizzava – se i ricordi non mi tradiscono – che “sa bellesa non faghet domo”.

 

Ma ritorniamo ad Antonio Gramsci ed alla questione della lingua. In una delle lettere dal carcere, l’ideologo sardo chiede ad una sorella d’avere notizie d’un nipotino e domanda: “in che lingua parla?”. Interrogativo motivato dall’imposizione, in uso in quegli anni soprattutto nei confronti dei bambini, d’esprimersi solo ed esclusivamente in italiano. “Spero – si augura invece Gramsci – che lo lascerete parlare in sardo”, perché un tale divieto “nuoce alla formazione intellettuale e mette una camicia di forza alla fantasia”. Ergo, “ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore”. Anche perché “il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé ed è un bene che i bambini, se possibile, imparino più lingue”.