Seu in su scuriu de candu mi mancas: funt aici is tancas chene luxi ’e luna. In ora peruna agatu consolu. Pens’a tui solu, sa prenda prus rara.

 

Lo struggente canto di Franco Madau, su versi di Paolo Pillonca, hanno reso omaggio a Tzia Arega Loi, una madre di Teulada che nella Prima Guerra Mondiale perse tre figli in battaglia. A settant’anni dalla sua morte, l’amministrazione comunale ha voluto ricordare questa donna dedicandole la diciottesima edizione dell’Incontro Internazionale di Scultura su Pietra, una fortunata manifestazione artistica che si svolge nel piccolo Comune sardo sin dal 1988. ”La guerra, dolore delle madri”, è stato il tema proposto agli scultori, provenienti da diverse parti del mondo, da loro poi trasformato in pregevoli opere d’arte. Piero Gensini (Firenze), Francesco Panceri (Crema), Salvatore Alfonso (Palermo), Giuseppe Corongiu (Assolo), Milena Taneva (Bulgaria), Myriam Paradisi (Francia), Veronica Fonzo (Argentina), Wendy Sempertegui Paez (Ecuador) hanno plasmato il duro marmo di Orosei, lasciando le loro opere alla comunità di Teulada.

 

Un omaggio a Tzia Arega Loi, divenuta, per l’occasione, simbolo di tutte le madri che a causa della ”follia” della guerra, piangono la morte dei loro figli. Di lei non ci sono immagini fotografiche, ma il suo volto, pietrificato dal dolore, è ancora vivo nel ricordo degli anziani del paese: ”La solitudine ed il silenzio erano stati turbati dai singhiozzi di molte mamme e specialmente da Tzia Arega Loi che pianse sui tre figli caduti in guerra sull’Isonzo”. Così scriveva, qualche anno fa, Ovidio Addis, il grande studioso di archeologia, vissuto a lungo a Teulada. Tre figli caduti in guerra: Antioco, 32 anni, colpito a morte il 4 dicembre 1915, in San Giorgio di Nogara; Francesco, 34 anni, morto il 28 dicembre, dello stesso anno, a Perteole (erano entrambi ”Sassarini”, arruolati nel 152° Reggimento Fanteria); Ferdinando, morì tre mesi dopo, il 19 marzo del 1916, in Bosco Cappuccio, dove combatteva col 30° Reggimento ”Pisa”.

 

La madre, Tzia Arega, fu informata brutalmente della triste notizia e restò pietrificata dal dolore”. Così, Fernando Pilia, il quale, in un suo libro, definì questa donna la ”Niobe Sarda”. In effetti, una sorta di nemesi, di vendetta divina, sembrò abbattersi su di lei, la quale, pochi mesi prima della terribile notizia, dovette seppellire il figlio Emanuele, sposato e padre di due bambini, rientrato dal fronte con una grave malattia e, nello stesso giorno, la sua giovane moglie.

 

Tzia Arega, lottò con le unghie e con i denti e riuscì a far rientrare a casa almeno il quinto figlio, Giovanni, che per oltre tre anni ”iat serbìu su Rei”, rischiando la vita e contraendo una grave malattia da cui riuscì a guarire, grazie alle amorevoli cure di sua madre, solo dopo molto tempo. Per gli altri un fazzoletto di terra e forse una croce, a Redipuglia, insieme ai 118 Teuladini che non tornarono mai a casa.

 

”Is sordaus contat che pegus de scartu”. Tzia Arega si rinchiuse sempre di più nel suo dolore. No agatu modu/ de m’asseliai./ Mi pongiu a pregai/ ma pregadorias/ de is lavras mias/ po malafortuna/ non ndi bessit una/ sinzilla sinzilla. Per lungo tempo neppure la preghiera riuscì a lenire il peso, insopportabile, della tragedia. Poi pian piano un’altra realtà. Forse fu la pietà divina a sottrarre la sua mente agli affanni della vita e a trasportarla in un’altra dimensione, più lieve, dove la sofferenza era addolcita dai colori tenui di una realtà senza lacrime. Cand’as a torrai/ t’ap’a arregalai / froris de cerexia. Il dolore si trasforma in attesa. Ogni passo lungo la via, ogni picchiare all’uscio; il rintocco delle campane, che segna la mezza ed il vespro, diventano un urlo, una speranza: ”Funti torraus”. Così per oltre vent’anni, sino alla sua morte, avvenuta nel 1935.