La posizione naturale di Sant’Antioco, con il suo sviluppo costiero e la presenza di uno specchio lagunare e dello stagno che contorna la sua costa, costituisce uno dei presupposti essenziali all’avvio di due forme di attività peschereccia: la pesca in mare e quella nelle acque salmastre degli stagni costieri. Fin dal ’600 la gente locale ha avuto contatti con altre popolazioni pescherecce che si erano insediate nel centro sulcitano. Infatti, i pescatori di mare sono di solito d’origine forestiera (ponzese, siciliana, napoletana, ligure), per la maggior parte ex-pescatori stagionali, ora diventati stanziali, che importarono specifiche conoscenze sulla pratica della pesca specializzata del tonno, del corallo e dell’aragosta.

 

Questa ”non sardità” degli addetti alla pesca di mare e l’eterogeneità compositiva del nuovo gruppo hanno implicato interessanti conseguenze nelle tecniche di pesca, nelle imbarcazioni, negli arnesi e nella nomenclatura, che risultavano arricchite di nuovi apporti e nuove conoscenze. Spesso però tali tecniche non furono acquisite che in minima parte dai pescatori sardi, che non disponevano d’ingenti capitali da investire nelle attività marittime e per queste ragioni rimasero maggiormente legati alla pratica tradizionale della pesca di stagno. In tale pratica i pescatori si sono tramandati tecniche e attrezzature di notevole arcaicità, facendole resistere all’avanzare dei secoli. Oggi però essa va incontro ad un processo di decadimento determinato dall’alterazione dell’habitat, inquinato dagli scarichi industriali localizzati intorno agli stagni e minacciato dalla pratica indiscriminata della pesca industriale.

 

Tra i vari problemi che il pescatore deve risolvere si rilevano il luogo, il tempo e le modalità di cattura del pesce. Tali fattori determinano delle differenze tra le diverse tipologie di pesca. La molteplicità di queste varietà va riferita soprattutto alle attrezzature e alle tecniche di pesca: sa pisca cun is nassas e su càlixi, sa pisca cun is palangus, sa pisca cun is arreccias (su strascinu, sa sciabbiga o sa pisca a umbra, su sangiolu, sa palamidera, ecc..), sa pisca de su corallu e de sa tonnina.

 

Poiché proprio nella pesca di stagno sono maturate le esperienze più indicative e originali, è opportuno soffermarsi sulla pesca praticata con una fonte luminosa, denominata dai pescatori antiochensi con l’espressione ”andai a fiacolai”. Con questo termine si definisce una tecnica di pesca paragonabile all’odierna pisca cun sa lampara, praticata con un grosso lume appeso alla prua della barca. Il vocabolo lampara indicava la barca stessa, una coppia di barche, la rete adoperata oppure tutto il ciclo operativo della pesca notturna del pesce azzurro.

 

”Is primus barcas chi piscanta sa sardina innoxi a Sant’Antiogu funt is lamparas, chi ddas narant diaici: alluent una luxi, ammollant s’arreccia, poi candu s’arreccia fiara ingunni, si ci fura sa sardina, passant sa luxi a fiancu e sa sardina andara a imbisti; dda tirant a (b)burdu e dda tirant a unu a unu in is cascias”. La fonte luminosa utilizzata era una lampada a petrolio (sa candela ’e farcai) che veniva montata sulla prua del chiattino per mezzo di una lunga asta di ferro (sa cardera) che consentiva alla luce di sporgersi oltre la barca e di illuminare l’acqua. In passato questa pesca veniva praticata anche con una diversa fonte luminosa, anch’essa detta sa cardera; si trattava di un grande braciere montato a prua dell’imbarcazione (su braxeri de prua) per mezzo dello scalmo di prora (su ghioni o su scramu de prua), all’interno del quale ardevano legni di ginepro spinoso particolarmente adatto per la luminosità nel bruciare.

 

Il pesce, una volta attratto dalla luce, veniva catturato con fiocine (sa forca o sa fruscina) di fabbricazione artigianale forgiate dai fabbri locali. Queste erano di ferro battuto e avevano una dentiera di nove o undici punte collegata ad un’asta di legno di misura variabile dai 3 ai 5 metri (sa fruscina de seixi, doxi e bintunu pramutzu). Il tempo per ”fiaccolare” era l’inverno, tra Settembre e Febbraio.

 

Questo tipo di pesca era notturna e veniva praticata in assenza di luna e di vento, quando il fuoco della fiaccola, necessario per illuminare, non rischiava di spegnersi e quando il mare era calmo e consentiva di individuare i pesci sul fondo. L’imbarcazione usata era il chiattino piatto a due remi lungo 5 o 6 metri (su ciu a dus arremutzus), sufficiente per portare a bordo solo due marinai (is marineris) e per raggiungere sia i fondali rocciosi (is iscoglius), sia quelli di posidonia (s’altima). A una profondità bassa e variabile da 1 a 6 metri si catturava ogni tipo di pesce: anguidda, sépia, prupu, carina, sperritu, sparedda e lissa. Spesso remando si arrivava fino al golfo di Cagliari. Se soffiava lo scirocco, il vogatore si riposava, perché la barca era trainata dal vento: si apriva una specie di vela quadra, si calava un remo in mare e si sfruttava la spinta del vento.

 

 

”Per noi pescatori era importante

solo quando usciva il sole e quando

scendeva, tutto il resto non contava,

quando eravamo stanchi ci fermavamo

a riposare in una spiaggia e poi ripartivamo.